Il cardinale John Henry Newman (1801-1890), beatificato da papa Benedetto XVI nel 2010 e proclamato santo nel 2019 da papa Francesco - archivio
Jean Guitton considerava il cardinale Newman come il vero padre del Vaticano II. “Io penso – disse l’intellettuale francese in un’intervista a questo giornale negli anni ’90 – che tutti i grandi Concili siano stati ispirati da un grande pensatore, mistico e dogmatico insieme. Il Concilio di Nicea ha avuto sant’Atanasio e quello di Trento san Tommaso. Quando affermo che il segreto ispiratore del Vaticano II è stato Newman, penso a quanto ha scritto sullo studio della Bibbia, sul ruolo dei laici e delle donne, sullo sviluppo dei dogmi, sulle relazioni con i non credenti: nelle sue opere le formulazioni del Concilio sono già presenti. Per lui il cristianesimo è una religione dinamica, è protesa verso il meglio, né puritana né conservatrice”. La personalità di John Henry Newman (1801-1890) fu altrettanto dinamica sia prima che dopo la conversione alla fede cattolica avvenuta nel 1845, che fece scalpore essendo uno dei teologi anglicani più in vista. Da allora colui che sarebbe stato fatto cardinale da Leone XIII nel 1879 – e che papa Francesco ha proclamato santo nel 2019 – ha speso la propria vita nell’elaborazione di un pensiero teologico capace di spaziare da un confronto aperto ma serrato con la modernità fino alla letteratura: ne sono prova alcune sue opere narrative, come Loss and Gain, scritto nel 1848, e Callista, romanzo apologetico dedicato a Cipriano di Cartagine, uscito nel 1855. Pur credendo fermamente nella rilevanza della letteratura e dell’arte in rapporto alla teologia, Newman non aveva però un giudizio del tutto positivo sulla cosiddetta “narrativa cattolica” Tanto che in uno dei suoi scritti più famosi, L’idea di università (1852), così ebbe a dire: « Non dico che non potete costituire una letteratura scelta per i giovani, anzi, neanche per le classi medie e inferiori; si tratta di una questione del tutto diversa; sto parlando dell’educazione universitaria, che implica un raggio di letture, che deve avere a che fare con opere esemplari del genio, o con ciò che si chiamano i classici di una lingua; e dico che se, per sua stessa natura, la letteratura deve diventare lo studio della natura umana, non potete avere una letteratura cristiana. È una contraddizione di termini tentare una letteratura senza peccato dell’uomo peccatore. Potete mettere insieme qualcosa di molto grande e alto, qualcosa di più alto di qualunque letteratura ci sia mai stata; e quando lo avrete fatto, scoprirete che non è affatto letteratura ». La lunga citazione va interpretata: da una parte esprime la consapevolezza, da parte di chi può essere considerato il precursore di scrittori cristiani inglesi come Chesterton, Belloc, Tolkien e Lewis, che la vera narrativa non può eludere il tragico e la questione del male e non può perciò basarsi sui buoni sentimenti. Di qui la critica a un certo modo di intendere la cosiddetta “narrativa cristiana” che è giunto sino a noi. Dall’altra testimonia l’apertura mentale del nostro teologo, per il quale i grandi classici della letteratura di tutti i tempi, a partire da quella greca, non possono non costituire la base per un insegnamento scolastico e universitario, per la formazione integrale dei giovani insomma. La sua posizione emerge chiaramente nel libro John Henry Newman e l’idea di letteratura di Francesca Caraceni (Carabba, pagine 284, euro 25,00), che contiene anche due saggi di critica letteraria del teologo: il primo del 1829, intitolato Poetry, uscì sulla London Review, il secondo invece si chiama Literature ed è il testo di una conferenza tenuta all’Università Cattolica d’Irlanda a Dublino nel 1852 (il ciclo di prolusioni divenne poi il volume citato sopra, L’idea di università). L’autrice compie un’analisi accuratissima sulla figura del cardinale, spaziando dalle reazioni negative che ebbe sua conversione all’interno del mondo anglicano alle difficoltà che Newman ebbe con la stessa gerarchia cattolica e con Pio IX in particolare, perché era troppo aperto al dialogo fra cattolicesimo e modernità. Nell’articolo sulla poesia, scritto d’età giovanile che troverà un’elaborazione più compiuta nel saggio sulla letteratura, risalta «l’assimilazione della poesia al dono» che «definisce automaticamente la poesia in termini carismatici». Per Caraceni, che si richiama agli studi di Enrico Reggiani e in particolare al suo libro Bellezza cangiante. Cattolici di lingua inglese e letteratura (Vita e Pensiero 2018), Newman identifica in buona sostanza la vera poesia con la mistica perché consente all’uomo di partecipare all’invisibile. Si tratta di una sorta di atto contemplativo non lontano dalla più vivida esperienza religiosa e non a caso, come sottolinea ancora l’autrice, « Newman rimarca la subordinazione del linguaggio e dell’abilità linguistica rispetto alla fase contemplativa della creazione». Criticando un’affermazione della Poetica di Aristotele secondo cui l’eccellenza di una tragedia dipende dalla trama, il teologo dà vita a un ampio excursus che prende in esame le opere dei tre grandi tragediografi greci, attraverso un confronto fra l’Agamennone di Eschilo, l’Edipo re di Sofocle e le Baccanti di Euripide, per conla cludere seccamente che «il teatro greco era un puro atto creativo dell’immaginazione». Ma la parte più coinvolgente è quella in cui Newman sostiene la necessità fondativa degli studi letterari nella formazione dei giovani. « Lo studio dei grandi autori, mediatori e testimoni di verità ulteriori nel mondo fisico, è ineludibile per l’elevazione morale», commenta Caraceni, annotando l’avversità del futuro cardinale verso le concezioni utilitaristiche che si riferivano alla filosofia di Locke. Ma la battaglia di Newman toccava anche molti settori conservatori cristiani, i quali negavano autorità agli scrittori antichi perché considerati pagani e chiudevano le porte perfino a Shakespeare. Dice Newman al riguardo: « Direte che il linguaggio di Cicerone è studiato, mentre quello di Shakespeare è senza dubbio naturale e spontaneo: questo s’intende quando si accusano i classici di essere semplici artisti della parola” » E incalza: « Possono davvero pensare che Omero, Pindaro, Shakespeare o Dryden, Walter Scott, mirassero d’abitudine alla dizione in sé, invece di essere ispirati dal loro argomento, facendone scaturire belle parole perché avevano bei pensieri? È un paradosso troppo grande da sostenere. Piuttosto, è il fuoco dell’autore che si riversa nel torrente della sua bruciante, irresistibile eloquenza: è la poesia della sua anima che trae sollievo dall’ode o dall’elegia». I classici antichi e moderni, compresi quelli biblici, sono un patrimonio dell’umanità che va difeso e diffuso strenuamente: « Lungi da me – dice ancora Newman – negare l’irraggiungibile grandezza e semplicità delle Sacre Scritture; tuttavia affermerò che anche i classici sono, in quanto composizioni umane, semplici e maestosi e naturali. Concedo che le Scritture si occupino di cose, ma non affermerò che la letteratura classica si occupi semplicemente di parole ». Così egli si fece sostenitore della necessità «di un’educazione improntata sulla Liberal Knowledge enciclopedica d’ispirazione ateniese-medievale», come rileva in una nota Caraceni, che ha reso con questo volume un rilevante omaggio al teologo cattolico più importante dell’800. L’attualità del suo pensiero è dimostrata dalla citazione di The New Pope, la serie tv di Paolo Sorrentino: nella seconda stagione l’aristocratico inglese John Brannox, interpretato da John Malkovich e destinato a diventare papa succedendo a Jude Law, dichiara di avere come mentore proprio il cardinale Newman e ne conserva una statua in giardino.