Il chitarrista Dodi Battaglia ex Pooh in scena nel suo recital
«Sa la prima cosa che mi dice la gente quando esce dal mio spettacolo? “Ma guarda, scopriamo che sei simpatico. Quello lì che sembrava così riservato, che dava poca confidenza quando suonava nei Pooh, invece è capace di farci sorridere”». Dodi Battaglia, il chitarrista che per 50 anni ha fatto parte della band più amata dagli italiani, si sorprende dei commenti del pubblico: perché Dodi è tornato ora ad essere quel Donato Battaglia figlio della Bologna popolare aprendo il diario dei ricordi personali in uno spettacolo che è una vera chicca. Si tratta di Nelle mie corde – canzoni & sorrisi con la regia di Fausto Brizzi, che ha scritto il testo insieme al grande chitarrista e all’attrice e cantante Eleonora Lombardo. La tournée iniziata al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano, vede un applauditissimo Dodi Battaglia ripercorrere con 20 delle sue 160 chitarre i segreti dei più grandi successi della musica italiana di cui è stato artefice, e non parliamo solo dei Pooh, in un dialogo intimo e divertente con la sua memoria. Partner del tour è Aido, l’Associazione Italiana per la donazione di organi. Stasera a Maiori, in provincia di Salerno, l’ultima tappa dell’anno. Poi si riprende dal 13 gennaio: Taranto, Lecce, Montecatini, Varese, Bergamo, Alessandria e Torino.
Dodi Battaglia, lei affronta la sfida di essere davvero se stesso in scena.
Nella mia vita ho cercato di essere uno strumentista serio e concentrato, non avevo tanto tempo per occhieggiare le ragazze dal palco. Non volevo in questo spettacolo, però, essere un umorista alla Zelig. Ma devo ammettere che l’intuizione di Fausto Brizzi è stata giusta: “Fidati la gente deve vedere in te un nuovo Dodi Battaglia, è 50 anni che ti conosce. Lasciati prendere in giro”. Sono molto contento di questo format, è una cosa nuova, nessun musicista è andato su un palco a mo’ di “one man show” per raccontare se stesso, alleggerendo anche la “pesantezza” del personaggio. Mi spiego: la medaglia di Cavaliere della Repubblica, la laurea honoris causa, i 100 milioni di dischi venduti con i Pooh vedo che hanno un peso su chi mi stringe la mano. Invece qui c’è solo Donato.
Come ha fatto a rimanere se stesso nonostante l’immenso successo?
E’ una ispirazione che ho sempre avuto sin da ragazzino. Io suonavo nei complessini base, arrivavano i cantanti più famosi, alcuni erano di una gentilezza infinita, certi altri erano invece altezzosi e mi stavano sulle scatole. Già allora pensavo: “Se diventerò famoso non avrò mai un atteggiamento nei confronti del prossimo così.
Merito anche della sua famiglia di origine?
Per fortuna con un po’ di talento ci sono nato, devo ringraziare la benevolenza da parte del Cielo e del pubblico. Io sono nato in una casa dove al di là del giardino c’era il cartello con scritto Bologna. Ovvero, dove c’era casa mia, finiva il mondo. La mia famiglia viene da un paesino molto piccolo vicino a Ferrara, abbiamo nel Dna la fatica, quella che vuol dire impegno. Noi bolognesi abbiamo grandi campi pieni di barbabietole, fino a pochi anni fa la gente si spezzava la schiena, e quindi so bene il regalo che Dio mi ha fatto. Poi io ho studiato, ho creato, ho fatto un lavoro importante su me stesso, ho fatto dei seminari.
Da piccolo lei è stato anche un baby prodigio della fisarmonica…
Mio padre suonava il violino, mio zio la chitarra, mio nonno il pianoforte, la musica era di casa nella mia famiglia. A cinque anni io volevo la fisarmonica e insistevo con mio padre. Un giorno arrivò a casa con una fisarmonica giocattolo vinta in una pesca di Natale al bar dove si vedeva con gli amici. A mezzogiorno me la portò e io la sera avevo già imparato da solo a suonare il brano di Renato Rascel Vogliamoci tanto bene amore mio che piaceva tanto ai miei genitori.
Però poi la chitarra è diventata la sua vera compagna di vita.
A casa ne ho 160, alcune costruite secondo le mie indicazioni. Sessanta di loro fanno parte del libro da cui è partito anche il progetto teatrale, Le mie 60 compagne di viaggio. Ricordo che quando ero agli inizi ebbi la faccia tosta di aprire un concerto di Jimi Hendrix a Bologna suonando uno dei suoi successi. Certo, lui aveva una Fender Stratocaster e io una Echo che costava un quinnati to… Meno male che nessuno mi ha menato e l’ho passata liscia. La vera motivazione dello spettacolo è raccontare quello che ognuna di quelle chitarre rappresenta per me, ma non solo, anche per gli addetti ai lavori. Con la chitarra di Parsifal sono entrato nel mondo anni 70 con quel suono, dimostrando con i Pooh ai critici che non scrivevamo solo canzonette. La stessa cosa vale per la chitarra di Uomini soli o quella di Dammi un solo minuto. Rappresentano simbolicamente un momento importante.
Scopriamo anche che l’arpeggio inconfondibile di brani come Una canzone per te e Va bene così di Vasco portano la firma di Dodi Battaglia.
Il rapporto con Vasco nasce da un’amicizia profonda col suo produttore, eravamo a scuola insieme. Era il 1983 e mi chiamò perché aveva sentito la mia maniera di arpeggiare, il contrappunto, la mia maniera di fare i soli, le linee melodiche, il contrappunto alla linea melodica originale. Io non avevo la chitarra, perché i nostri strumenti stavano tornando dalle Hawaii dove con i Pooh avevamo registrato un disco. Mi diedero loro una chitarra, una Fender Telecaster, mentre io normalmente uso una Stratocaster. Mi hanno messo a disposizione una sala e con altri musicisti abbiamo cominciato a lavorare sugli spartiti con la massima libertà creativa, così sono quegli accordi caratteristici di Va bene così e Una canzone per te. Toffee ho pure provato a cantarla, ma facevo ridere: lì si capisce la differenza tra un bravo cantante e un’autentica rockstar come Vasco.
Nella sua memoria largo spazio, ovviamente, va al capitolo Pooh.
Sono felice di aver portato il mio contributo a quella fantastica storia. Agli inizi dovevo solo fare bene Piccola Katy, non mi era richiesto altro. Facchinetti però mi disse: “Se entri nei Pooh devi essere il migliore”. Sono orgoglioso di avere portato avanti una maniera italiana di suonare la chitarra. Prima era solo di accompagnamento, stile Una rotonda sul mare. Invece ho sviluppato un mio stile personale ispirato agli States: la mia prima moglie era americana e io ero spesso negli Stati Uniti ad apprendere metodi e comprare dischi. Dal Parsifal in poi tutto questo si è potuto esprimere al meglio.
Alla storia dei Pooh lei ha contribuito anche come autore.
Un giorno Giancarlo Lucariello, l’ex manager, ha creduto in noi quando eravamo quattro ragazzotti. Mi disse: “Perché non provi a scrivere?”. Così composi Ci penserò domani, Io canterò per te, Vienna. E poi mi sono riscoperto dopo anni a suonare il pianoforte per comporre anche i miei dischi da solista, come l’ultimo Una storia al presente.
Commuove nello spettacolo il suo omaggio all’amico Stefano D’Orazio.
Ho scritto un brano dedicato a lui, queste sono amicizie particolari. Noi siamo due persone diametralmente opposte, lui è romano, burlone, scherzoso, ironico, io bolognese, un po’ imbronciato, strumentista ad oltranza sempre con gli occhi bassi sullo strumento. In questa complementarietà c’era un rispetto profondo per i nostri caratteri diversi.
Si sente con gli altri ex Pooh, Red Canzian e Roby Facchinetti?
Certo, ci sentiamo anche per questioni che ci legano dal punto di vista discografico. Ma io non sono mai stato il più grande sostenitore che i Pooh si sciogliessero: uno che è nato come me dall’umiltà e che poi si vede esplodere una fortuna così non capisce perché mandarla alle ortiche. Ma ho imparato che quello che penso io non è l’assoluta verità. Io sono la minoranza e democraticamente si fa quello che vuole la maggioranza. Così devo accettare col sorriso sulle labbra. Se sono d’accordo per una reunion? Sì, anche domani mattina, pago io la benzina e l’autostrada: non puoi andare contro a quello che vuole la gente…
Ora però ha forse più tempo per la sua famiglia?
Io ho 4 figli, 4 nipoti, 3 ex colleghi, 4 ruote motrici: il 4 è un numero ricorrente. Una mia figlia vive a Washington, una a Bologna, mio figlio a Milano, e la più piccola momentaneamente vive a Bologna con me. Siamo una bella famiglia che si telefona, si sente, quando uno ha bisogno dell’altro ci siamo. Io sono molto molto italiano, se non li sento, non li vedo e non gli mando il cuoricino via whatsapp mi manca una parte della mia vita.
A proposito di mancanza, un grande dolore è stato circa un anno fa la scomparsa di sua moglie Paola...
Dissi che non volevo parlare più di queste cose: posso solo ribadire quello che ho detto al suo funerale. Se ne è andata una bella persona, una bella e brava moglie, positiva e intelligente. A oltre un anno di distanza sta mancando sempre più a me e a tutti noi.