Riccardo Chailly - Teatro alla SCala
Parla di «responsabilità» Riccardo Chailly. La «grande responsabilità per il Teatro alla Scala e per la città di Milano di fare memoria di un evento che fu unico e irripetibile». Perché la prima assoluta, la sera del 22 maggio 1874, della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, fu «un momento di emozione collettiva, fu la celebrazione di Alessandro Manzoni ad un anno dalla morte. Un momento talmente importante che Verdi volle salire sul podio per dirigere lui stesso la sua partitura, una delle più alte riflessioni in musica sul dolore e sulla morte». Non uno spettacolo. Ma «un avvenimento spirituale profondissimo». Un pensiero riconoscente all’autore dei I Promessi sposi, al quale «Verdi era legatissimo». Una preghiera, un grido dell’uomo di fronte al mistero della fine. Tanto che le note della Messa da Requiem per la prima volta risuonarono non in un teatro, ma nella basilica di San Marco. E tra le navate della chiesa milanese torneranno stasera, per celebrare i centocinquant’anni da quella prima. Orchestra e coro del Teatro alla Scala, come il 22 maggio del 1874. Le voci di Marina Rebeka, Daniela Barcellona, Francesco Meli e Alexander Vinogradov. E sul podio Riccardo Chailly. «In chiesa, in questa chiesa dove il Requiem verdiano risuonò per la prima volta, è chiaro che il pensiero andrà in alto, a Dio» racconta il direttore musicale del Piermarini. In mano la partitura, quella che lo accompagna dal 1984 «quando ho diretto per la prima volta questa pagina che ho iniziato ad ascoltare negli anni Settanta seguendo le esecuzioni scaligere di Claudio Abbado. Una pagina dove avverto la voce che noi uomini, che siamo parte del Creato, leviamo a Dio. E oggi come allora avverto un profondissimo senso di appartenenza che questa musica ci comunica».
Cosa significa, maestro Chailly, celebrare i centocinquant’anni di una partitura come la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi e farlo in San Marco, dove risuonò per la prima volta?
«Un grande responsabilità, sicuramente, che interpella la nostra coscienza di artisti e di uomini. Dare quell’attacco in pianissimo ai violoncelli tra queste navate significa ritrovare l’acustica originaria, il suono che Verdi voleva e che lui stesso ascoltò dirigendo la sua Messa. In San Marco c’è un’acustica incredibile, un’eco naturale che avvolge la musica di mistero e sacralità».
Una pagina, la Messa da Requiem, modellata sulla liturgia funebre.
«Il Requiem è stato un trapasso sofferto per Verdi che ha messo in questa partitura la sua consapevolezza, la sua profondità e la sua cultura, dentro c’è il gregoriano nel Te decet hymnus e c’è un omaggio a Bach nella fuga del Sanctus. Per il compositore era un momento profondamente spirituale e per questo impose il divieto di repliche dopo la prima in San Marco. Ma il successo portò ad eseguirlo subito per tre sere alla Scala. Il Requiem è una riflessione continua e costante sulla morte, parte da una genuflessione, quell’attacco in pianissimo dei violoncelli che da un mi alto scendono al mi grave. Da qui si snoda una riflessione sul pentimento, una presa di coscienza del fatto che prima o poi ognuno dovrà affrontare irrimediabilmente il momento della fine. Una riflessione in sette momenti dove i primi due, il Requiem Aeternam e la Sequenza che si apre con quel Dies Irae che ossessivamente tornerà fino alla fine, durano come gli altri cinque. E culminano nel Libera me, Domine in cui Verdi prova a chiedersi il senso di potersi liberare dalla morte»
C’è più speranza o rassegnazione?
«Penso che ci sia più rassegnazione. Io, dirigendolo, la vivo così. C’è il senso di rassegnazione di chi ha consapevolezza di quello che ci attende alla fine della vita, l’incontro con la morte. C’è una domanda, profondissima, da tenere presente e restituire in musica. Il rischio, anche con bravi interpreti, è che la bellezza della melodia porti ad un autocompiacimento del canto che, in realtà, deve essere a servizio della parola. Ecco perché quando dirigo la Messa da Requiem, una volta giunto alla fine del viaggio chiedo sul primo Libera me un accelerando, quasi per dare un senso di speranza, ma poi la seconda volta lo faccio in rallentando con i bassi che scendono al do grave. Questo per dire il senso di rassegnazione. Che, per chi crede, non è, però, la parola definitiva, è piuttosto un passaggio verso la certezza che la fede offre della vita eterna».
Quali i momenti del Requiem che la toccano particolarmente?
«Il Tuba Mirum è uno degli apici assoluti, ogni volta carico di un’emozione tragica che mi avvolge. C’è una veemenza musicale che vuole lasciare sconvolti. Ci sono le trombe del giudizio, nove in tutto, tre in orchestra, tre alla destra e tre alla sinistra degli ascoltatori. Che sono così dentro quel momento di assoluta tragicità. Un momento emotivamente deflagrante al quale segue un silenzio che ha la stessa forza di questo passaggio in fortissimo. E poi c’è il Lacrymosa dove sento un senso del dolore che credo Verdi volesse esprimere».
La musica del Requeim, come tutta la musica verdiana, è nel dna di questo teatro tanto che ogni direttore che ha guidato la Scala ha voluto dirigerla.
«Per me è la sesta volta che affronto il Requiem con i complessi scaligeri, l’ho fatto anche in Duomo a Milano a settembre 2020, per fare memoria delle vittime del Covid, un viaggio nel dolore, ma anche un immergersi in una misericordia che ci ha fatto intravedere una speranza. Ho diretto la Messa per Rossini dove Verdi mise il primo nucleo del suo Requeim, il Libera me, Damine. Recentemente con il corso scaligero di Alberto Malazzi abbiamo eseguito e inciso i Quattro pezzi sacri. E siamo stati in tournée in Europa con cori e sinbfonie verdiane. Non solo. Nel tempo ho voluto eseguire il Requiem con tutte le orchestre che ho diretto stabilmente, Berlino, Amsterdam, Lipsia sino alla Verdi di Milano dove la proposta annuale della Messa da Requiem è diventata una tradizione che si ripete ancora oggi. Ma penso che non ci sarà mai un momento in cui potrò dire di avere una confidenza con questa partitura. Non penso di poter replicare me stesso. Il dilemma dell’interpretazione si presenta ogni volta che apro una partitura, questa in particolare perché il Requiem ogni volta impone di ripartire da zero, di mettere in campo riflessione, ispirazione, scavo e approfondimento. Il suono verdiano della Scala è un’eredità da proteggere come un patrimonio per l’umanità. Ma quello che mi fa paura è il pericolo di cadere nell’abitudine esecutiva di un “si è sempre fatto così”. A me questo non è mai bastato. Ogni volta ritorno al testo di questo Verdi maturo che fa i conti con la morte».
Quale il suo pensiero di fronte alla morte?
«Ho il senso della fiducia nel tempo. Spero che il tempo sia clemente e mi consenta di vivere ancora quello che sto vivendo perché mi reputo una persona fortunata, come uomo e come musicista. Mi accorgo che più vado avanti negli anni e più c’è il senso del distacco che inevitabilmente ci sarà. In tutto questo, però, la fede è un grande conforto e un’imprescindibile compagna di viaggio».