Cinquant'anni fa e più, oltre mezzo secolo, una vita. Cinque
cerchi, mille storie. Olimpiade di Roma, 1960 uno spartiacque. Un mondo diviso
in due, fuori. Guerra fredda, tensione apicale tra superpotenze. Un mondo
insieme, nello sport. Fu lì che si rivelò al mondo, per la prima volta.
Era ancora Cassius Clay, medaglia d'oro tra i mediomassimi, il roboante
annuncio del Muhammad Ali che sarebbe venuto. Volava come una farfalla,
pungeva come un'ape. E già vomitava fiumi di parole. Era appena maggiorenne,
allora. Adesso che compie 70 anni, si muove come in una tragica moviola,
trema come un cane infreddolito, anzi di più. E la bocca, chiusa. Il male
gli ha minato il fisico, azzerato le parole. La luce resta accesa, in senso
di lucidità mentale mai perduta. Legge del contrappasso. Ha menato cazzotti,
abbattuto rivali. Ora si muove a fatica, tremante. Ha sparato sentenze,
lanciato proclami. Ora se ne sta in silenzio, pensoso.
Resta quel che ha fatto sul ring, brani di storia dello sport. E quel che ha detto (e fatto) fuori, pagine di biografia da atleta anomalo, muscoli sì ma pure
cervello. Un'icona, che se ne condividano oppure no i modi e i gesti. Era
un ribelle, è divenuto un esempio. Sul ring, un fuoriclasse. Il più grande,
secondo se stesso: «Ma l'ho detto ancor prima che lo fossi». Perché pure
sul quadrato faceva contare le parole, là dove dovrebbero prevalere i muscoli.
Gli avversari li smontava prima, coi suoi strali avvelenati. Ne minava
le certezze, ne abbassava le difese. Poi li finiva coi pugni, danzandogli
intorno, colpendoli con la velocità che gli consentiva di «spegnere la
luce e andare a letto prima che sia buio».
Così s'è preso tutto: l'oro olimpico di Roma, poi il mondiale dei massimi, più volte. In cambio ha lasciato pagine di storia, sfide memorabili, match dai mille significati, quando i "massimi" erano leggenda, re di uno sport, idoli della gente.
Gli altri si sono fermati al ring, lui è andato oltre. Prima ribelle, poi
icona. Ribelle quando c'era da esserlo. Quando i gesti contavano, e facevano
rumore. Come gettare una medaglia d'oro nel Mississippi per protesta, contro
l'America che ne ammirava le qualità di pugile ma ne ripudiava il colore
della pelle.
Ha mischiato ring e protesta, gli insegnamenti di Angelo
Dundee (il suo allenatore, un altro mito) e quelli di Malcom X. Prima di
diventare un esempio, per l'America è stato un nemico. Non volle andare
in Vietnam, «perché i vietcong non mi hanno mai chiamato negro»: si vide
ritirare corona iridata e licenza. Combatté nello Zaire, accolto come un
re, lui che aveva immaginato quel viaggio come il ritorno alla terra madre.
Un nemico, allora. Un mito, dopo.
La consacrazione, ad Atlanta 1996. Già tremava, Ali, morso dal male. L'America doveva accendere la sua fiaccola olimpica, chiamò lui, l'ex campione del popolo. Fece una fatica immane, accese il sacro fuoco, il paese fu ai suoi piedi. Ne ha fatta di strada, l'America. Se Obama ne è il presidente, il merito è di chi ha difeso i diritti civili. Pure merito di Ali, in parte. Lui, cristiano convertitosi all'Islam, ne avrebbe anche per chi uccide nel nome della religione. Una
sua frase, poco conosciuta: «Tutte le religioni hanno nomi diversi, ma
tutte contengono le stesse verità». Un'altra lezione, da fuoriclasse.