95 anni e non sentirli: Gian Luigi
Rondi, il decano della critica italiana, il presidente
dell'Accademia dei David di Donatello, il felpato e inossidabile
grand commis del cinema italiano avrebbe festeggiato il suo
compleanno il 10 dicembre con l'uscita in libreria delle sue
"Lettere" dedicate ai maestri stranieri. La prima puntata del
carteggio, riservata ai registi del cinema italiano, era apparsa
lo scorso anno, svelando pieghe private, pentimenti, convinzioni
e amori di un uomo e un intellettuale che molti hanno temuto,
molti aspramente contestato, tantissimi ringraziato, tutti
rispettato. Invece Rondi se ne è andato ieri notte, in silenzio,
nella sua casa romana del quartiere Parioli, con lo stesso
elegante riserbo che ha contraddistinto la sua vita.
Figlio di carabiniere, nato per caso a Tirano in Valtellina
il 10 dicembre 1921, cresciuto prima a Genova e poi a Roma, il
giovane Rondi si innamora presto del cinema come il fratello
minore, Brunello che sarà poi sceneggiatore e amico di Federico
Fellini. Laureato in Legge alla Sapienza nel 1945, congedato dal
servizio militare per un vizio cardiaco che gli risparmierà
l'orrore della guerra, firma i suoi primi articoli sull'organo
dei Cattolici Comunisti "Voce operaia" e milita nelle formazioni
partigiane nella Roma occupata. Con Silvio d'Amico collabora
alla rivista "Teatro" e all'Enciclopedia dello spettacolo, per
poi trovare spazio, a guerra appena finita, sulle colonne del
quotidiano "Il Tempo" di cui terrà per tutta la vita la rubrica
di critica cinematografica. Da quella tribuna, che poi estenderà
alla radio, alla televisione, a quotidiani stranieri come "Le
Figaro" e "Le film Français", Rondi diventerà presto una voce
ascoltata, riverita, spesso temuta. Il suo magistero critico si
identifica presto nella politica culturale della DC di stampo
andreottiano, l'uomo a cui avrebbe fatto sempre riferimento,
così come ai suoi direttori al "Tempo": prima il liberale Renato
Angiolillo e poi il democristiano Gianni Letta. Del "divo
Giulio", avrebbe presto ereditato la sobrietà degli atti, la
lucida analisi, la precisione maniacale, perfino l'abitudine di
tutto annotare in agende private che sarebbero diventate un vero
mito e un serbatoio prezioso di ricordi e memorie. Attento
interprete degli orientamenti cattolici, Rondi entrò spesso in
collisione frontale con gli intellettuali della Sinistra
italiana: memorabile l'invettiva che gli indirizzò Pasolini,
celebri le sue posizioni intransigenti in fatto di morale, meno
noti i ripensamenti e i risarcimenti privati che il critico
restituì nel tempo ad autori anche spesso duramente criticati
come Antonioni a cui sembrava preferire la "chiarezza esplicita"
di Pietro Germi.
Giurato alla Mostra di Venezia già nel 1949 e poi in alcuni
dei maggiori festival mondiali, la storia di Rondi si incrocia
spesso con quella della Mostra di Venezia di cui è stato
commissario, direttore, presidente in epoche diverse. Toccò a
lui fronteggiare nel 1971 la contestazione dei registi italiani
che gli organizzano un contro-festival veneziano in Campo Santa
Margherita (le Giornate del Cinema italiano); tocca a lui
dimettersi due anni dopo proprio in omaggio alle richieste di
rinnovamento dell'Anac; tocca ancora lui nel 1983 riprendere il
testimone di Carlo Lizzani alla guida della Mostra, organizzando
una spettacolare parata di Leoni d'oro alla carriera in cui
seppe mettere vicino Kurosawa e Fellini, Bergman e Chaplin. E
poi, da presidente della Biennale affiancherà Gillo Pontecorvo
(direttore) in una nuova fase di rilancio internazionale del
festival. Senza mai lasciare lo scranno di decano della critica,
Rondi è stato infatti anche un attivissimo organizzatore di
rassegne e di premi (ancora ieri presiedeva l'Accademia dei
David di Donatello). Del resto le decorazioni erano la sua
segreta passione: quattro volte insignito dei titoli dell'Ordine
di Malta, Legion d'onore della Repubblica francese, Cavaliere di
Gran Croce della repubblica italiana, ne aveva oltre 30
conservate nel cassetto.
Elegante e misurato nei gesti come nelle parole, sodale di
Fellini anche nei vezzi (una candida sciarpa al collo per lui
come per Fellini una rossa), amante del cinema italiano che nel
tempo gli restituì un plauso alla fine unanime, Rondi era
diventato un'istituzione prima ancora che un uomo. Amava il
bianco e il nero, sullo schermo come nella vita. "Vestii a lutto
nei primi anni '70 per onorare la morte di mio padre - amava
ricordare - e da allora è diventata per me una sorta di
uniforme. Poi ho pensato di metterci su una sciarpa bianca che
mi rimandava al cinema più amato".
Il suo film preferito rimane "La notte di San Lorenzo" dei
fratelli Taviani, il regista prediletto Fellini "perché - diceva
- è quello che ha inventato un modo nuovo dell'arte".
E dietro gli occhiali spessi, l'ironia a tratti pungente, celava
una fragilità interiore e un pudore degli affetti cui non venne
mai meno, nel rapporto coi figli e i nipoti, nel legame con la
moglie Yvette, scomparsa quattro anni fa. "Non mi rassegno alla
noia, al non far niente, alla morte - confessò una volta -.
Nella mia vita sono stato moralista e non solo morale, di questo
mi pento, ma in privato, non sono mai stato un tipo espansivo".