Prima di Budapest e Praga, fu Berlino. La ribellione popolare che andò in scena nella parte Est dell’ex capitale tedesca nel 16 e 17 aprile del 1953, sessant’anni fa, fu «la prima rivolta popolare contro la dominazione dell’impero sovietico: fui terribilmente commosso da questa prima rivolta operaia contro il sistema sovietico». Ecco però ora il j’accuse del grande intellettuale di sinistra, comunista “eretico” (nel 1954 decise di non aderire più al Partito francese, disgustato dallo stalinismo), Edgar Morin, padre nobile del pensiero progressista europeo. Morin sottolinea oggi che quella rivolta di Berlino Est «era tedesca, e in quanto tale non suscitava nessuna simpatia in Occidente, anche tra gli intellettuali di sinistra, i quali temevano di passare per anticomunisti; essa fu impunemente denunciata come fascista dalla parte sovietica. La rivolta tedesca del 1953 resta sconosciuta fuori dalla Germania». Una ribellione che, causata per il taglio degli stipendi decisa dal governo, fu lanciata da una sessantina di operai edili di Berlino Est: il loro sciopero, con successive richieste di libertà democratica, si estese a tutto il Paese. Il 17 giugno la repressione violenta causò un centinaio di morti a causa dell’intervento dell’esercito sovietico, chiamato in aiuto dal regime di Berlino Est: fino alla riunificazione, la Germania dell’Ovest scelse quella data come festa nazionale. Quella rivolta però non si esaurì nell’arco di due giorni, tanto che per tutto il mese di luglio in cinquecento centri ci furono disordini e proteste.L’accusa di Morin è presente nelle sue memorie berlinesi,
Mes Berlin 1945-2013 (Cherche Midi, pagine 94, euro 12,00), da poche settimane nelle librerie francesi: in Italia è da poco approdato
La mia Parigi, i miei ricordi (Cortina). È proprio in questo errore prospettico verso Berlino Est, simbolo della Repubblica democratica tedesca – ovvero la parte comunista dell’allora Germania divisa in due –, che Morin individua con indubbia onestà un errore storico dell’intellighenzia di sinistra del Vecchio continente. Si era appena usciti dal dramma della Seconda guerra mondiale, dalle macerie del nazismo, dallo spavento dei lager (Morin era un giovane soldato francese presente a Berlino nei giorni della liberazione): «Non cessavo di essere angosciato dalla domanda: come la Germania aveva potuto produrre quel che più amavo nel mondo e quel che più mi faceva orrore?». Da un lato la letteratura (Goethe e Schiller), la musica (Beethoven e Wagner), la filosofia (Nietzsche, Marx, Hegel e Heidegger); dall’altro l’antisemitismo mortifero, l’ideologia occupatrice, «la Berlino grandiosa e terrificante, non più la capitale della cultura, ma del furore e dell’odio, con le grida del Fürher posseduto dal dio Thor». E dunque, all’indomani dell’entrata dell’Armata rossa da est e degli Alleati da ovest, ecco la nuova comprensione che la sinistra europea aveva della Germania che sarebbe stata un giorno “al di là del Muro”: «Vedevo non solo la corruzione del capitalismo – scrive Morin – ma anche la sua impotenza a risolvere i problemi della ricostruzione mentre i primi lavori edilizi della Germania Est mi portavano la prova tangibile della capacità del socialismo di edificare un mondo nuovo». In altre parole, poiché la Germania era considerata tout court traditrice degli ideali umanisti (che andavano per la maggiore a sinistra) a causa della sua compromissione con il nazismo, ogni volta che, come nella rivolta popolare del ’53 che chiedeva libertà e libere elezioni, veniva respinta l’ipotesi comunista-sovietica, ecco scattare
à gauche il riflesso istintivo: tutto ciò era solo un fascismo mascherato da rivolta popolare. Lo ricorda bene Morin quando parla del suo
L’anno zero della Germania: «In quel libro rifiutavo la colpevolezza collettiva del popolo tedesco. Questa idea era eretica a quel tempo, soprattutto nella letteratura comunista».Nel libro Morin riporta anche diversi incontri con personalità alquanto significative della cultura europea del Novecento: c’è quello, datato 1946, con Martin Heidegger nei dintorni di Friburgo: «Fu estremamente sorpreso di sapere che andavo a parlare semplicemente con lui e mi ricevette molto cordialmente, mentre sua moglie rimase invece molto fredda. Sono contento di aver teso la mano a un filosofo a quel tempo maledetto per la sua adesione al nazismo, sul quale fu invece convinto solo per poco». C’è il gustoso aneddoto per cui Morin cercò, negli anni 1943-1944 insieme allo scrittore Rudolf Leonhard, di dare inizio a un gruppo di intellettuali francesi che sostenessero i dissidenti del nazismo in Germania. Nel progetto coinvolsero Emmanuel Mounier, il filosofo cattolico direttore di “Esprit”. Mounier stilò un elenco in cui spiccava l’esistenzialista Jean-Paul Sartre, certamente non tacciabile di simpatie cristiane. Ma fu Leonhard a bocciare il nome dell’autore di
L’esistenzialismo è un umanesimo: «Il Partito [comunista,
ndr] non accetterà mai il suo nome». Il nome di Sartre fu tolto. Commenta oggi Morin: «Fu una delle scelte imbecilli che ho più rimpianto in vita. Mounier giudicò quella scelta espressione di un settarismo assurdo».