Il calciatore italiano Maurizio Montesi in azione con la maglia dell'Avellino alla fine degli anni Settanta
C’è stato un “caso Montesi”, il giallo della morte di Wilma, la ventunenne fatta passare per suicida, che, nel 1953, fece tremare il palazzo della politica, e quasi trent’anni dopo un “caso Montesi”, Maurizio, il calciatore di lotte, passato alla storia della Lazio come il “sovversivo” o il “traditore”. Il più grande bracconiere di storie laziali, l’inviato de La7 Guy Chiappaventi, è tornato a seguire le poche tracce lasciate da questo ex talento sparito nel nulla, e ha scritto una fantastica nofiction novel, che è un po’ il “romanzo criminale” del pallone e dell’Italia degli anni ’80. Un romanzo verità che ha intitolato La scomparsa del giocatore militante. Una storia di politica, pallone e tradimenti (Milieu. Pagine 143. Euro 16,00: in libreria da oggi). Trattandosi di un romanzo, solo i nomi e cognomi dei personaggi non coincidono con quelli reali, e la vita spericolata del protagonista è documentata fino al limite dell’area del rispetto dovuto verso l’uomo che ha pagato un prezzo alto per le scelte di chi a vent’anni aveva già imboccato quella via ostinata e contraria che conduce inesorabilmente al margine. «Era un calciatore moderno, avanti per gli anni Settanta- Ottanta», così Chiappaventi presenta il suo Montesi, che nel libro non nomina mai, lo chiama M.M. per smarcarlo dal pressing biografico. Nato, nel 1957, in quella Roma popolare ai tempi degli slogan di battaglia: «Capitale corrotta = Nazione infetta». Partitelle sanguigne a sbucciarsi le ginocchia sul selciato di Piazza Giovine Italia, disputate in contemporanea a quelle di Trastevere, dove all’oratorio di don Orione, sotto l’occhio vigile di don Francesco Pizzi, c’era un ragazzino dalle movenze alla Cruijff e il caschetto alla Calimero calato sugli occhi vispi che rispondeva al nome di Bruno Giordano. Con il bomber Bruno, Andrea Agostinelli, Stefano Di Chiara e Lionello Manfredonia, Montesi nella stagione 1975’76 vinse il titolo italiano Primavera.
Tutti ragazzi che da lì a poco avrebbero fatto il grande salto nella prima squadra, la Lazio scudettata del ’74, che nel romanzo di Chiappaventi diventa l’Alma. E qui si dipana la vicenda in chiaroscuro del ragazzo militante in quella sinistra extraparlamentare, e quindi indesiderato nello spogliatoio fortemente schierato a destra (dai “camerati” Wilson e Manfredonia) per non parlare di quella Curva Nord che storicamente contempla milizie animate da tangibili nostalgie fasciste. Il tecnico Bob Lovati stravede per il ragazzo baffuto di centrocampo, moderno anche nell’interpretazione del gioco, ma, per ragioni soprattutto ideologiche, sono costretti a mandarlo a farsi le ossa ad Avellino. E laggiù, esiliato nella tana dei lupi irpini, assieme al compagno laziale “Gianfranco” (alias Giancarlo Ceccarelli), conquista la promozione in Serie A ed emerge prepotentemente anche il «compagno insabbiato nel riflusso», scrive sempre Chiappaventi. In un’intervista concessa al quotidiano Lotta Continua (tre saranno le interviste di Montesi nella sua breve ma incendiaria carriera calcistica) il giocatore entra a gamba tesa sulla politica locale (i vertici emergenti della Dc) rea di strumentalizza il calcio, e dà degli «stronzi» agli ultrà della Curva biancoverde che scendono in piazza per un rigore non dato ma non spendono una parola di indignazione per l’ospedale di Avellino che cade a pezzi . Parole avvelenate, da cartellino rosso permanente, e solo una sparuta minoranza della tifoseria avellinese proverà ad incoraggiarlo con un timido lenzuolo che inneggiava quasi ironico «Hasta Montesi siempre!».
Foglio di via immediato da Avellino e ritorno alla Lazio dove c’è chi, come il capitano Lino – nome di finzione di Wilson nel romanzo di Chiappaventi – raccoglie petizioni pagate pur di non riabbracciare quello che da lì a poco sarebbe assurto da «sovversivo» a «traditore». Venti di guerra spiravano su quegli anni di piombo in cui personaggi come Montesi e il compagno del Perugia Paolo Sollier provarono anche a mettere in piedi un sindacato calciatori di estrema sinistra. E per questo furono bollati alla stregua dei brigatisti che svaligiavano banche, sparavano per le strade, arrivando al rapimento-madre, quello del leader della Dc Aldo Moro (rapito dalle Brigate Rosse, il 16 marzo e trovato morto il 9 maggio 1978). Un anno dopo, il 28 ottobre 1979 si spara anche all’Olimpico: un razzo lanciato dalla Curva Sud romanista finisce nell’occhio del tifoso laziale Vincenzo Paparelli pacificamente seduto con la moglie in Curva Nord per assistere al derby. Paparelli morirà in ospedale. Montesi quel giorno viene schierato titolare con la maglia n. “8” (che era stata di Re Cecconi fino al suo omicidio, 18 gennaio 1977) e informato della tragica morte del tifoso si rifiuta di scendere in campo.
Ma viene convinto a forza a giocare quel derby-farsa che terminò con un mesto 1-1. Montesi ferito nell’orgoglio, nei giorni seguenti sfoga la sua rabbia a Panorama (intervista a Angelo Maria Pellino), accusa il sistema calcio di essere ricattato (già allora) dalla tifoseria che pretende e ottiene biglietti per lo stadio e finanziamenti per le trasferte. Un clima di impunità garantito dalle stesse dirigenze, corrotte quanto i calciatori che, di lì a poco, sarebbero caduti nella rete del calcioscommesse. Una rete gettata dal “Gatto e la Volpe”. Così Chiappaventi chiama il ristoratore Trinca e il fruttarolo Cruciani, due figurine di quella stessa Roma torbida e coatta da cui Montesi vuole sganciarsi. E il calcio, quello pulito, può essere un buon mezzo, perché si lavora poco e si guadagna tanto. Ma il calcio è anche lo sport che pone inesorabilmente i suoi protagonisti sotto i riflettori accecanti dell’opinione pubblica e al minimo fallo fischiato porta perfino alla sbarra. I «6 milioni offerti dal capitano Lino» per truccare la partita con il Milan a San Siro, 6 gennaio 1980, diventa anch’essa la madre di tutte le prove, quella che scoperchierà il vaso delle truffe legate al calcio. Steso su un letto d’ospedale, dopo la frattura biossea provocatagli dal cagliaritano Bellini, Montesi quel vaso putrido e colmo di illeciti lo svuota (da capire se è la sua o la verità effettiva). La terza e ultima intervista della sua vita, data al giovane quotidiano La Repubblica e all’altrettanto giovane cronista Oliviero Beha, crea il “caso Montesi” e scatena il primo grande sisma del calcioscommesse. Il mondo del calcio italiano tremò quel 23 marzo 1980.
I compagni, ovviamente compagni solo di squadra, Cacciatori, Giordano, Manfredonia e Wilson finiranno in manette, condannati dalla giustizia ordinaria e squalificati dalla giustizia sportiva. Montesi a quel punto diventa il «Giuda » e di fatto, dopo scampoli giocati in altre 11 partite con la maglia della Lazio, chiuse anticipatamente la sua carriera a 25 anni, nell’83. Il suo nome riapparirà dieci anni dopo, ma non nei tabellini di una partita o come figurina dell’album Panini, ma in un pasticciaccio a Fiumicino. Un giro di narcotraffico in cui il gip non convaliderà il suo arresto, cosa che gli consentirà di scappare, ma al processo in contumacia verrà condannato assieme all’amico Giuseppe Biancucci, indagato nelle vicende legate alla colonna romana delle Brigate Rosse. Approfittando del solito caos giudiziario all’italiana, la storia di Montesi diventa quella del “Fuggiasco” di Massimo Carlotto. Ed è qui che interviene la penna acuminata di Guy Chiappaventi che insegue un fantasma uscito di scena quarant’anni fa e di cui non esistono foto pubbliche da trent’anni. Nell’epoca ferale dei selfie e dei social dominanti, siamo dinanzi a un Fu Mattia Pascal o un Ettore Majorana del terzo millennio.
Nel romanzo La scomparsa del calciatore militante questa fuga viene ricostruita, ma soprattutto è magistrale il ritratto dell’uomo braccato, escluso e poi cancellato dalla damnatio memoriae degli untori, che lo vogliono addirittura il principale responsabile della retrocessione in serie B e degli anni bui della Lazio anni ’80. Il finale del romanzo di Chiappaventi riserva molto sorprese con un autodafè che fa luce su molte delle zone d’ombra del periodo vissuto alla Lazio. Ma rimane il mistero, che incuriosisce da decenni quei laziali con le tempie imbiancate: ma Montesi che fine avrà fatto? Ha viaggiato per l’Europa, lo davano in Francia come i tanti extraparlamentari italiani residenti a Parigi e protteti da Mitterand. Ha vissuto sicuramente in Spagna, ma Chiappaventi parte del mistero lo risolve affidandosi al massimo esperto di trame sotterranee, alla lettera nascosta di Edgar Alla Poe: «Il posto migliore per nascondersi è sempre quello dove non dovrebbero vedere e dunque proprio per questo nessuno ti verrà a cercare». Montesi è tornato a Roma, ma il suo caso, forse, rimarrà irrisolto, come tanti dei misteri italiani.