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Il testimone smarrito è stato ritrovato. I quattro azzurri che correvano spediti in Giappone non vivono più sull’Olimpo, ma ventiquattro mesi dopo l’estasi di Tokyo cancellano gli errori di Eugene e Monaco per tornare - a ventotto anni di distanza da Göteborg 1995 quando Puggioni, Madonia, Cipolloni e Floris furono di bronzo e a 40 anni dall’argento di Helsinki - nuovamente sul podio iridato. La 4x100 dell’Italia si tinge d’argento in riva al Danubio, grazie al secondo exploit nel giro di ventiquattr’ore di Roberto Rigali, Marcell Jacobs, Lorenzo Patta e Filippo Tortu.
Un quartetto mai schierato in precedenza, ma che in Ungheria ha trovato la giusta amalgama: in semifinale venerdì il cronometro aveva restituito 37”65, nell’atto conclusivo sul display è comparso 37”62. Più veloce di così l’Italia ha corso solo nella dolce notte giapponese.
La staffetta veloce tricolore non è più quella dei Giochi - Rigali ha preso il posto di Desalu e Patta è avanzato dalla prima alla terza frazione – ma conserva due punti fermi: Marcell Jacobs sul contro rettilineo e Filippo Tortu in chiusura. Il campione olimpico bresciano è la dimostrazione di come senza un centista capace di 10” netti la staffetta non vada da nessuna parte. In sua assenza le finali del Mondiale e dell’Europeo 2022 sono rimaste un miraggio, con lui è tornata l’euforia dell’italiano medio che corre. Il bresciano ha fallito l’accesso in finale dei 100 individuali perché gli mancavano le volate nelle gambe, ma nei due giorni dedicati al quartetto ha aumentato frequenze e falcate, tanto che il suo lanciato sulla retta opposta ha fatto la differenza. Campioni del calibro di Kerley, Hughes e Seville stavolta si sono inchinati. Il brianzolo non ha perso il marchio di fabbrica, quel tuffo sul filo di lana che gli consentì a Tokyo di battere di un centesimo il britannico Mitchell Blake (sebbene vada ricordato come i sudditi di Sua Maestà siano stati estromessi dalla classifica a cinque cerchi per via di una squalifica postuma per doping di Ujah) e che ieri sera ha spedito l’Italia sul secondo gradino del podio, respingendo l’assalto di giamaicani e britannici. Per l’oro non c’è stata partita con gli Stati Uniti di Noah Lyles (qui vincitore di 100 e 200) a trionfare in 37”38 col quartetto composto anche da Coleman, Kerley e Carnes. Bronzo ai giamaicani in 37”76, quarti i britannici in 37”80.
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Il vate della squadra, colui che l’ha creata e modellata a immagine e somiglianza, è sempre il catanese Filippo Di Mulo, docente di educazione fisica dedito all’arte del passaggio del testimone. Grazie ai suoi studi sui cambi quattro atleti normali, ma bravi nel far transitare da una mano all’altra il cilindro di alluminio da 70 grammi, possono battere quattro supervelocisti ma inesperti nel gioco del cambio. Per abbeverarsi a questa scienza basta scorgere il riscaldamento degli azzurri e assistere al rapido scambio dell’oggetto magico al suon di una sola parola: hop. Un’arte che ha contagiato anche le donzelle d’Italia, giunte per la terza volta consecutiva nella finale iridata. In semifinale Zaynab Dosso, Dalia Kaddari, Anna Bongiorni e Alessia Pavese avevano migliorato il record nazionale correndo in 42”14, mentre nell’atto conclusivo dalla quarta corsia la 4x100 azzurra in gonnella si è espressa in 42”49, chiudendo al quarto posto dietro a Stati Uniti, Giamaica e Gran Bretagna.
Italia popolo di staffettisti, visto che per la prima volta in un Mondiale sono approdate in finale tutte e quattro le formazioni classiche: domenica sera a giocarsi le ultime medaglie della rassegna magiara ci saranno anche le due 4x400. Evidentemente quando impugnano il testimone gli azzurri rendono di più rispetto alle altre nazioni. Fratelli e sorelle d’Italia accomunati dal motto “uno per tutti, quattro per uno”.