Pubblichiamo in questa pagina una parte del saggio che il biblista e gesuita Jean-Pierre Sonnet dedica alle fonti scritturistiche di «Moby Dick» sull’ultimo numero della «Rivista del clero italiano» (edita da Vita e Pensiero). In «Navigare sull’abisso» padre Sonnet, professore alla Gregoriana di Roma, passa in rassegna personaggi e situazioni del capolavoro di Herman Melville, mettendo in luce una fitta rete di rimandi e allusioni di ascendenza biblica.
Melville ha costruito il suo racconto – che noi leggiamo come quello di Ismaele, il narratore – convocando la Bibbia. Il che ha particolarmente accentuato la dimensione profetica di Moby Dick, racconto che costituisce per molti aspetti un atto d’accusa. Attraverso la figura di Achab, il romanzo “drammatizza” in effetti la cupidigia degli Stati Uniti nei confronti dei territori messicani (il Congresso americano votò l’annessione del Texas nel 1845). Attraverso la persona dello stesso Achab, che si assoggetta tutto l’equipaggio, il racconto stigmatizza anche lo schiavismo («Chi non è schiavo?», si chiede Ismaele poco prima d’imbarcarsi). “Remixando” le figure bibliche nello spessore della sua opera, Melville le sottrae di fatto a qualunque forma di appiattimento o di riduzione.
Ne rafforza al contrario il potere critico, stanando con esse le logiche di cupidigia e d’idolatria presenti nella società degli uomini (e in particolare nella società cristiana, puritana o liberale). L’Achab di Moby Dick, che fa un patto con un diavolo che si è creato lui stesso, prende così il testimone di quello del Libro dei Re, e il lettore è messo in guardia come non mai davanti al carattere mortifero della bramosia umana. Lungo Moby Dick l’impegno del lettore è in qualche modo proporzionale a quello d’Ismaele, il narratore.
Unico sopravvissuto della tragedia, Ismaele è un Giona risalito dall’abisso: su di lui incombe, come al Giona di padre Mapple, «predicare la Verità di contro alla Menzogna», opponendo alla menzogna «la propria inesorabile persona ». La lunga narrazione d’Ismaele è di conseguenza il luogo di un «fare la verità» (cfr. Gv 3,21), assimilabile al lavoro dell’analisi che Sigmund Freud caratterizza come «ricordare, ripetere, rielaborare». A differenza di Ulisse che si è protetto dal canto delle sirene, Ismaele ha sentito tutto delle menzogne di Achab; con i suoi compagni di equipaggio, è stato esposto a tutte le manovre ipnotiche del capitano. Rielaborando le cose nel suo racconto, lo stesso Ismaele porta il suo lettore vicinissimo alla follia di Achab pur proteggendolo da essa: la sua narrazione è una forma di antidoto. Ismaele si fa in tal senso emulo del narratore biblico, che non arretra davanti a nulla quando si tratta di rappresentare le opere o anche il punto di vista dell’empio e del malvagio. Grande è il contrasto con Platone che, nella Repubblica, vedeva in queste rappresentazioni mimetiche, fonti di possibile empatia, una minaccia per la repubblica. Agli occhi del narratore biblico, il rischio dell’empatia con l’idolatra, il blasfemo o l’assassino non ha corrispettivo rispetto alla posta dello scontro.
Nella storia che racconta, conviene in effetti esporre il lettore a tutto ciò che può tramare l’uomo, per meglio misurare tutto ciò che può tramare Dio (cfr. Gen 50,20: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha tramato di farlo servire a un bene»). Ma qual è il self che Ismaele oppone alla menzogna di Achab? Si tro- va alla congiunzione della sua persona, fra il suo ruolo di protagonista e il suo ruolo di narratore, ed è visitato dall’amicizia. Quando il Pequod speronato da Moby Dick scompare tra le acque, travolto da un irresistibile vortice, Ismaele si salva aggrappandosi a uno strano salvagente che, per così dire, gli è stato mandato dal suo amico Queequeg. Quest’ultimo, arpionatore dall’aspetto terrificante, originario delle isole del Pacifico, si guadagna l’amicizia di Ismaele fin dalla sua tappa a New Bedford. Quando nel bel mezzo dell’oceano Queequeg è preso da forti febbri, si fa costruire una bara a forma di canoa, credendo imminente la propria fine (cap. 110). L’imbarcazione funeraria si rivela però inutile: Queequeg torna alla vita e suggerisce che la bara-canoa venga trasformata in salvagente (capp. 126-127). «Una bara come gavitello di salvataggio!», esclama il carpentiere di bordo. «O sotto c’è dell’altro? Non sarà che in un senso spirituale la bara in fin dei conti altro non è che un salvaimmortalità! Dovrò pensarci».
È questa la bara-salvagente ( coffin life-buoy) che riemerge dalle profondità dopo il naufragio: «Ed ecco che, sprigionata dall’ingegnosa molla, la bara salvagente, risalendo con grande impeto dovuto alla grande spinta di galleggiamento, schizzò fuori dal mare a perpendicolo, ricadde e mi fluttuò accanto. Tenuto a galla da quella bara per quasi un giorno e una notte interi, fluitai cullato dal sommesso canto funebre del pelago. Accanto a me guizzavano innocui gli squali, quasi avessero il lucchetto alla bocca; rostro inguainato, planavano i selvaggi falchi marini». Nel punto di articolazione del personaggio Ismaele, tra il protagonista e il narratore, un’ancora di salvataggio “mandata” dall’amico scomparso.
C’è qualcosa di cristico in questa life-buoy tornata dalle acque della morte, che permette a Ismaele di navigare indenne in acque infestate da squali. E se Ismaele può, durante la sua narrazione, avvicinarsi a creature ben più pericolose, è perché è stato sostenuto dall’ingegno cristico del suo amico pagano. Forse bisogna pure prolungare la metonimia, e vedere nel salvagente un simbolo del libro d’Ismaele e di Melville, agganciato a quello delle Scritture: ci permette di navigare dove Achab è sprofondato nella sua follia. Melville, scrive Nicholas Philbrick, «ha creato l’equivalente letterario della barasalvagente di Queequeg: un libro che scompare nelle profondità prima di esplodere in superficie, giusto in tempo». Un libro «come gavitello di salvataggio»?