Gareth Southgate, l'allenatore dell'Inghilterra che domani sera affronterà la Croazia per accedere alla finale di Mosca
Dopo Alf Ramsey e Bobby Robson c’è lui, il ct per caso. Magari accostare il nome di Gareth Southgate a quelli dell’unico ct inglese a vincere un Mondiale (in casa, nel 1966) e dell’ultimo capace di portare l’Inghilterra in semifinale (Italia ’90, quarto posto) può apparire irriverente, ma questo dicono i risultati: in Russia la nazionale dei Tre Leoni è ad un passo dalla finale per la terza volta da quando, nel 1950, ha abbandonato l’isolazionismo dei pionieri, e può legittimamente sognare di arrivare il 15 luglio a giocarsi la Coppa del Mondo a Mosca. In mezzo tra l’obiettivo e l’epilogo del Luzhniki c’è solamente la sfida alla Croazia, domani ore 20.00.
Timoniere per caso, Southgate, ma il rinascimento inglese non è affatto casuale e si rispecchia nel profilo del commissario tecnico che, nel settembre 2016, venne chiamato a sostituire Sam Allardyce, l’uomo che perse la guida della nazionale - l’occasione della vita, a 62 anni - per una storia truffaldina di aggiramento delle norme sulla proprietà dei cartellini dei calciatori svelata dal Telegraph. Southgate, che guidava l’Under 21 dal 2013, sarebbe dovuto durare un mese o poco più, giusto il tempo di quattro amichevoli e di consentire alla FA di trovare adeguato e prestigioso rimpiazzo sulla panchina che, con poche fortune, era stata anche di Hoddle, Eriksson, Capello e Hodgson. Era il 30 novembre quando la federazione ne decise la conferma: il percorso dell’Inghilterra a Russia 2018 cominciò quel giorno.
Da allora, Southgate ha modellato la nazionale a sua immagine, mostrando anche nel nuovo ruolo le doti di equilibrio, compostezza nel gestire la pressione e understatement che lo avevano portato, da calciatore, a diventare capitano di tutti e tre i club in cui aveva giocato (Crystal Palace, Aston Villa e Middlesbrough). Rispettato, autoironico - tutti gli appassionati inglesi ricordano lo spot di una pizzeria fast food nel quale Southgate, dopo il rigore fallito a Euro 1996, si lasciava prendere in giro per quell’errore - e genuinamente british, ha messo in pratica da subito un principio solo apparentemente banale: schierare i giocatori nei loro ruoli più congeniali, adattando i propri principi tattici alle necessità di squadra. Quello di Southgate appare così un calcio privo dei parossismi tipici dei guru da panchina ma perfettamente funzionale alle caratteristiche dei suoi ragazzi. Al bando i falsi 9 o i ruoli adattati al credo del sistema di gioco: centrali affidabili, esterni di livello, fosforo e solidità in mezzo al campo, un centravanti puro come Kane, leader vero e scevro da atteggiamenti da stella, capitano del quale Southgate si fida ciecamente.
L’altro aspetto peculiare del modello Southgate è l’aver convocato i giocatori per soli motivi di merito, a prescindere da immagine e reputazione. Ha avuto il coraggio di chiudere l’era Rooney, dallo scorso novembre ha estromesso Smalling e non si è fatto problemi a lasciare in Inghilterra Hart. Nazionali ora in auge come il portiere Pickford e i difensori Maguire e Trippier, per fare tre esempi, due anni fa non avrebbero mai potuto sognare di trovarsi, oggi, protagonisti in Russia, ma la chiamata e la fiducia l’hanno guadagnata sul campo a dispetto del loro relativo anonimato. Ad essi si aggiungono talenti quali Dele Alli (1996) e Marcus Rashford (1997), appunto un Kane maturo e letale - ha già segnato lo stesso numero di gol di Lineker a Messico ’86 - e più in generale una rosa in cui l’età media è di 25 anni e che ha visto un gruppo senza primedonne diventare coeso prima ancora che vincente.
Così, pur senza un Gascoigne o un Beckham, un Keegan o un Hoddle, un Terry o un Owen, ecco la migliore Inghilterra degli ultimi cinquant’anni, migliore anche di quella allenata da Venables che nel 1996, all’Europeo casalingo, uscì in semifinale battuta ai rigori dalla Germania proprio a causa del penalty di Southgate. Che ora è divenuto icona anche di stile con il suo impeccabile panciotto e, comunque vada, si gode la rivincita di chi è riuscito a fare rinnamorare i tifosi della nazionale. Il loro coro «it’s coming home, football’s coming home», ripreso dall’inno di quell’Europeo (intitolato Three Lions), suona oggi come Seven nation army (la versione originale del po-po-po-po-po-po-poo) suonava dodici anni fa per gli azzurri.
E se non accadrà stavolta, le prospettive future non mancano: a livello giovanile, infatti, nel 2017 l’Inghilterra ha vinto il titolo europeo Under 19, quello mondiale Under 17 - e l’Under 17 è stata semifinalista al recente Europeo 2018 - e Under 20, è arrivata in semifinale all’Europeo Under 21; nessun’altra federazione nazionale è riuscita nel medesimo periodo ad ottenere risultati così prestigiosi in tutte le maggiori competizioni. In questo senso Southgate e la sua truppa sono solamente la copertina patinata di una rivista ricca di contenuti di alta qualità ma senza fronzoli, perché il recente lavoro della federazione e dei suoi tecnici ha basi solidissime. Se c’è un modello da seguire, anche per l’Italia che deve ripartire, è proprio quello inglese.