venerdì 13 dicembre 2024
Tra rassegnazione e voglia di rinascita la vita quotidiana nel penitenziario milanese descritta in un libro con la prefazione del cardinale Zuppi
Una parte del cortile interno del carcere di San Vittore a Milano

Una parte del cortile interno del carcere di San Vittore a Milano - Edb/Matteo Pernaselci

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Anche chi non è mai entrato in un istituto di pena può constatare – abbandonando pregiudizi e indifferenza – il dolore, la rabbia, la solitudine, le attese di un condannato dietro le sbarre. E capire così, o magari solo intuire, che i detenuti sono persone umane con tutta la loro dignità e non semplici numeri di matricola o reietti da chiudere buttando la chiave della cella nella latrina nell’illusione di una sicurezza che può prescindere dall’emenda. E i reclusi, in quanto persone, non possono nemmeno essere identificati con il reato che hanno commesso, qualunque esso sia: assassini, ladri, malversatori. Per rendersene conto basta guardare le delicate immagini in bianco e nero e leggere le toccanti testimonianze che armonicamente si alternano nel libro I volti della povertà in carcere (Edb, pagine 144, euro 39,00) realizzato da Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero durante un “viaggio”, dolente ma illuminato, all’interno della Casa circondariale di San Vittore, nel centro di Milano: sguardi che nascondono grida strozzate dall’obiettivo, sorrisi teneri e rassegnati, visi, dorsi di mani e persino addomi che raccontano con i disegni sulla pelle – in una specie di camouflage – amori, desideri, drammi personali, appartenenze e i sacrifici dello stare fuori dal mondo. Freddi corridoi chiusi da un cancello, le celle ristrette, una cucina d’acciaio, il muro con una crepa, una croce sperduta su una parete bianca, una porta da calcio e un canestro davanti a un trompe-l’oeil, un orto ordinato e la serra dove le piante possono rifiorire. In queste foto c’è il tempo della speranza e dei sogni che si impasta con il dolore, la malattia, l’ingiustizia, i tradimenti, l’abbandono che ha segnato un’adolescenza e, quindi, la vita. Storie drammatiche di uomini e donne i cui destini sfilano su un crinale: Berrich, Pavell, Antonietta, Roberto, Said, Giuseppe, Cretu, Alessandro, Massimo, Francesco, Charaf. Undici tra i circa mille che affollano tutti i giorni la struttura detentiva di via Papiniano. Persone che hanno bisogno di avere da chi si occupa di loro un po’ di fiducia per ritrovare sé stessi e poter ripartire nonostante gli errori e le ricadute. Persone, appunto. I poveri di oggi, da custodire e visitare, come ci raccomanda il Vangelo. Per sostenere e accompagnare quelli che lo vogliono nella loro battaglia quotidiana contro la solitudine che li porta spesso alla più cupa disperazione senza più il cielo da guardare o la telefonata da fare a casa. «Il carcere non è un altro pianeta ma l’altra faccia del nostro, quella che non vogliamo vedere, che speriamo resti buia, ma che rappresenta quello che siamo; dobbiamo conoscerla e illuminarla con l’attenzione e l’amore, perché solo così siamo in grado di comprendere il resto» sottolinea nella prefazione il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. La realtà può apparire impietosa e senza prospettive. Ma lo spazio per una rinascita c’è. «Soffre chi è recluso, e si nasconde dietro la violenza e indossa una corazza per sembrare più forte degli altri, perché non può manifestare la sua debolezza» spiega il direttore della Casa circondariale milanese, Giacinto Siciliano.

Ma il carcere, per sua “natura”, è negazione e privazione della libertà, un luogo dove la convivenza spesso diventa impossibile. Come impossibile, per chi finisce dentro, è non guardare fuori, oltre quel sole a scacchi, non pensare a quello che potrà avvenire domani. Si contano i giorni, le ore, i minuti che non passano mai. Perché il tempo inganna e rischia di uccidere la speranza. «Ma cos’è la speranza per te?» chiedono gli autori del libro a Giuseppe, un uomo sulla cinquantina più volte “ricaduto” dal suo primo arresto, all’età di 16 anni. La Fondazione Casa dello Spirito e della Arti, che opera all’interno di San Vittore, lo aiuta a venir fuori dalla sua corazza, gli ha offerto anche l’occasione di incontrare Papa Francesco, un avvenimento che lo ha cambiato. Da qualche tempo Giuseppe fa belle sculture con materiali di riciclo e disegna. Rose a cui manca solo il profumo. È un’artista. «La speranza per me è quello che ti porti dentro tutti i giorni – risponde –, quel qualcosa senza il quale non puoi fare il passo che vorresti nella vita, e sta a noi inseguirla e correrle dietro… è luce, è colore!». Grazie a Dio, e agli uomini di buona volontà, «filtrerà sempre un raggio di luce da quella sottile crepa sul muro» di San Vittore. «È una luce decisiva, fosse solo uno spiraglio nel buio della disperazione – scrive il cardinale Zuppi – e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi».

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