Neue Nationalgalerie - WikiCommons
Esiste una sorprendente continuità di stile fra il primo Mies van del Rohe e l’ultimo che, dopo essersi naturalizzato americano, torna in Germania negli anni ’60 per lasciare la sua impronta a Berlino progettando la Neue Nationalgalerie. Diciamo subito che stiamo parlando di uno dei più straordinari pezzi d’architettura di tutti i tempi. Mi sono chiesto spesso che ruolo gioca Mies in quella schiera di grandi maestri che hanno dato l’impronta al Movimento moderno. Gropius, per esempio, è un pedagogo e tecnocrate, la cui estetica spartana e razionale è coerente con la cultura tedesca uscita dalla Grande Guerra e aperta al confronto col grande pragmatismo industriale americano: bisogna vestire la forma di un’idea spirituale, disse, aderendo a un idealismo ancora molto germanico.
Questo ideale è molto diverso da quello di Mies che invece ha nel sangue il confronto col pensiero medioevale della Scolastica: dialogò con Romano Guardini e consolidò la sua ricerca sulla forma dell’architettura avendo tra i concetti di riferimento l’adequatio rei et intellectus di san Tommaso (come lo stesso Mies dichiarò nel 1961 su “Architectural design”. Il Seagram Building a New York è uno dei suoi capolavori, ed è anche la piena espressione di quel pensiero antico che Mies riassumeva nel motto Lessi s more, il meno è il più, che non è soltanto una esaltazione del dettaglio, ma il cardine del realismo. Su Berlino Mies ha lasciato tra l’inizio degli anni ’20 e l’inizio dei ’30 alcuni progetti, tracciati talvolta per concorsi di idee, che sono rimasti sulla carta, ma risultano importanti per come hanno aperto lo sguardo anche degli architetti del secondo Novecento su una città per decenni ferita nel suo corpo dal Muro, come viene messo in luce anche nell’agile studio a più mani su Mies van der Rohe e Berlino edito da Quodlibet (pagine 112, euro 22,00).
A Muro smantellato, nel 1993 proprio negli spazi della Neue Nationalgalerie si tenne un simposio curato da Fritz Neumeyer, sul tema della ricostruzione, cui parteciparono figure come O.M. Ungers, R. Koolhaas e altri, ed è rilevante, scrive Michele Caja, che i progetti del primo Mies, pur non costruiti siano stati motivo di riflessione e spunto per nomi come lo studio OMA, Ungers, Eisenman o Herzod & de Meuron. Che cosa accadeva? Sostanzialmente Mies lavorando su nuove idee, prima dell’avvento del nazismo aveva sviluppato soluzioni notevoli per l’edificio a torre, oppure aveva strutturato nel 1929 un piano per Alexanderplatz che, uscendo anche dai limiti imposti dal bando di concorso, ripensava l’intera area costeggiata dalla stazione con un’articolazione di volumi che invece di riproporre isolati a ferro di cavallo si aprivano sull’intorno delineando una piazza di nuova concezione che, da enorme slargo qual era, diventava uno spazio di flusso e di relazioni volumetriche capaci d’interpretare in modo nuovo la tradizione storica europea.
Nel 1921 il grattacielo vetrato di Mies sulla Friedrichstrasse, progettato su un lotto triangolare, si scompone in altre forme cristalliformi che seguono la conformazione del terreno. Interamente vetrati, a proposito dei limiti inerenti alle superfici vetrate, spiegò così la sua soluzione: «Diedi una leggera angolazione alle singole superfici frontali in modo da scongiurare il pericolo di un effetto spento, che spesso si verifica nelle realizzazioni in cui il vetro occupa grandi superfici». L’anno dopo sulla stessa area elaborò la struttura di un grattacielo di trenta piani ancora tutto vetrato ma le cui superfici risultavano curve e sfuggenti, disegnando una forma irregolare: l’effetto era di sorprendente e dinamica modernità. Per Mies queste torri dovevano essere “edifici pelle e ossa”, in cemento ferro e vetro, dove le strutture in calcestruzzo erano «essenzialmente a scheletro ».
Le torri vetrate disegnate da Ludwig Mies van der Rohe per la Friedrichstrasse a Berlino nel 1921 - WikiCommons
Negli anni successivi, mentre i suoi progetti sulla città non si realizzano, costruisce alcune case che restano capolavori e di cui ci si dovrebbe occupare di più sul piano critico perché, accanto al Padiglione Barcellona, pura poesia di spazi e materiali, ritengo siano le uniche abitazioni moderne che possono competere con quelle di Wright, per il minimalismo che si libera, per esempio, di ogni valore extraspaziale, come invece non accade nelle pur straordinarie ville di Le Corbusier, senza tradire il ruolo figurativo dell’architettura nel tessuto urbano. Il libro, a cura di Michele Caja, Renato Capozzi e Luca Lanini, è appunto orientato al versante urbanistico con disegni, assonometrie e fotoinserimenti degli edifici nello spazio della città, discorso che vale anche per l’edificio della Neue Nationalgalerie del 1962-68, il testamento di Mies, che tornando nella Capitale vuole lasciare un segno che sia al tempo stesso un distillato stilistico e un monito su che cosa sia l’architettura.
Trattandosi di un edifico esistente, forse qualche foto dal vero poteva rendere meglio il tenore estetico dell’opera. Ben più di Parigi, Berlino resta il corpo risorto di un secolo che ha lasciato vistose cicatrici, rispetto alle quali l’edificio di Mies eleva un canto alla grandezza umana di una classicità che si rispecchia nel tempio greco. La bellezza rarefatta, nata dalla sintesi delle grandi travature in acciaio della copertura, della piattaforma a gradini che eleva tutto l’edificio e della forma rettangolare cinta dal vetro , sembra svuotarsi come un temenos, un recinto diafano dove tutto, per effetto della luce, sembra alleggerito del proprio peso.
Sia consentito evocare questo parallelo col recinto sacro dell’antichità in ragione della funzione dell’edificio, una galleria dedicata all’opera più spirituale dell’uomo, l’arte, e per l’aura che Mies ha portato dentro questo edificio emblematico delle aspirazione di Berlino, dopo la sconfitta bellica, a diventare il cuore pulsante dell’Europa. Capozzi scrive che la Neue Nationalgalerie è uno spazio “disoccupato” «che accoglie, in modi diversi, il più alto prodotto umano. Uno spazio evenemenziale che si assolutizza nel tetto a cassettoni ». Un nuovo Temenos, appunto, laddove il rito di massa ha sovrastato il silenzio del sacro. Ed ecco la sfida di Mies: «È un’Aula così immensa che comporta senza dubbi grandi difficoltà per l’esposizione d’arte. Ne sono consapevole. Ma ha una tale potenzialità che semplicemente non posso tenere conto di quelle difficoltà e le sue possibilità inesplorate non me le voglio perdere». E Capozzi chiosa: «Uno spazio disponibile a molti usi e quindi aperto alla vita, ai suoi cambiamenti, alla Lebenswelt nella sua più ampia accezione».
Questo edificio è il diamante che Mies ha incastonato nel cuore di Berlino, riscattando di fatto negli anni ’60 la storia dell’identità tedesca ferita dalla Grande Guerra, poi dall’avvento del nazismo e infine dalla divisione creata dal Muro in due nazioni sorelle. Ugualmente, ma senza lasciare un segno materiale, negli anni ’20 elaborando progetti sul corpo della città ingigantito dalla Legge del Groß-Berlin, segnata dal contrastante ritratto di una compagine sociale dominata da una massa ridotta alla miseria dal disastro economico e politico, a fronte di un ceto borghese che la trasformò nella Babilonia d’Europa; su questo sfondo Mies, già all’inizio della sua opera, progettò steli di cristallo come profezie del moderno splendide e scioccanti nell’orizzonte urbano dove il sogno panellenico si decomponeva fra protesta operaia e ludi cabarettistici. Sappiamo come andò a finire, e forse non è un caso che, trent’anni dopo, rientrando dall’America, abbia progettato per Berlino un tempio a un nuovo ordine classico della modernità.