La chiamavano “Swinging London”, era la Londra degli anni Sessanta, dove esplosero la cultura pop, la Beatlesmania, la minigonna e tanta creatività. Crollarono barriere culturali, fece il suo ingresso una generazione completamente nuova, ribelle, anticonvenzionale, piena di energia, protagonista di una vivace stagione artistica, estranea all’ingessata aristocrazia lontana dalla realtà. Erano i giovani della working class, la classe lavoratrice, di cui faceva parte anche Michael Caine, figlio di un pescivendolo e di una donna delle pulizie, che cambiò il proprio cognome, Micklewhite, ispirandosi al suo idolo Humphrey Bogart in L’ammutinamento del Caine. Ed è proprio l’84enne icona del cinema britannico a condurci con il suo racconto nella capitale inglese di quegli anni grazie al documentario My Generation, nato da una sua idea ma diretto da David Batty, corredato da un ricchissimo materiale di archivio e in arrivo nelle nostre sale lunedì 22 gennaio con I Wonder Pictures. Avvenire incontrato Michael Caine, e lui ci ha raccontato l’importanza di quegli anni per la sua generazione.
Mr. Caine, che effetto le ha fatto ripensare a quell’epoca?
«Ci ho ripensato per sei anni, tanto è durata la lavorazione del documentario. Gli anni Sessanta sono stati una parte fondamentale della mia vita, ma hanno cambiato per sempre anche il mio paese, snob e classista. Quando avevo 21 anni c’era solo una stazione radiofonica, la Bbc, che non trasmetteva musica pop, e l’uomo che leggeva le notizie era in giacca e cravatta. Ascoltavamo la musica che ci piaceva grazie alle radio di Berlino. E avevamo solo una tv che trasmetteva dalle 16. Ma nella vita non bisogna mai voltarsi indietro perché si rischia di inciampare. Vi invito a non guardare al passato con rabbia, ma al futuro con speranza. Oggi il mondo è un posto decisamente migliore».
Cosa accadde di irripetibile nel periodo della Swinging London?
«La gente pian piano conquistò qualcosa di incredibile arrivando da un incredibile nulla. Nei prima anni Sessanta l’Inghilterra era un paese morto e in bancarotta. Aveva vinto la guerra, ma non la pace, il suo impero si stava sgretolando e il rigido sistema di classi sociali collassava, anche grazie alle spallate dei giovani».
Da giovani avevate consapevolezza del ruolo giocato dalla vostra generazione?
«Da giovani andavamo a vedere film di guerra americani e non quelli inglesi perché gli americani parlavano di soldati semplici, gli inglesi solo di ufficiali. Abbiamo provato a cambiare le cose seguendo un’agenda non politica, ma sociale. Noi proletari ci sentivamo ignorati dal mondo dal cinema, in città non avevamo posti dove andare, potevamo pagare solo fish&chips prima che arrivassero i bar con la musica. Poi sono venute le discoteche. La working class è diventata protagonista per la prima volta al cinema con Alfie I giovani arrabbiati, mentre prima per interpretare qualche proletario venivano chiamati attori australiani».
Lei arriva da un quartiere povero, come è riuscito a diventare attore?
«Non ho frequentato costose scuole di recitazione perché non potevo permettermelo, lavoravo in una fabbrica di burro. Poi grazie a una rivista ho scoperto un posto di lavoro e sono diventato assistente di palcoscenico, con ruoli minuscoli, prima solo una frase, poi due, poi quattro. Qualche pubblicità, poi le prime cose al cinema. Il mio quartiere era pieno di malviventi e ricordo che quando ho interpretato il gangster Jack Carter un giorno per strada il vero bandito mi urlò che il film era spazzatura. La differenza tra me e lui era che io non avevo figli. “Noi uccidevamo solo perché avevamo dei bambini”, mi disse. Per qualche tempo ho preso anche il sussidio di disoccupazione, ero in coda con Sean Connery che in Scozia era stato eletto Mr. Edinburgh ed era arrivato a Londra per concorrere al titolo di Mr. Britain. Mi chiedono spesso se credo in Dio, e come potrei non crederci? Se non esistesse con sarei qui a parlare con lei».
Come furono gli anni successivi a quel momento d’oro?
«Gli anni Settanta in Gran Bretagna, caratterizzati dai grandi scioperi, sono stati molto deprimenti. Ricordo che c’era poca elettricità e nessuna raccolta della spazzatura. Poi le cose si sono nuovamente risollevate negli anni Ottanta, con la “Bowie Generation”. Il problema è stato che alla fine degli anni Sessanta è arrivata la droga, e niente è mai stato più come prima. Noi consumavamo alcol, mai sostanze stupefacenti. Chi faceva uso di eccitanti e cocaina non smetteva mai di parlare e chi prendeva allucinogeni non faceva che ripetere. “Wow!” Non c’era più alcuna possibilità di comunicazione e dialogo, i ragazzi hanno smesso di parlare».
Oggi i ragazzi hanno i social. Qual è la sua opinione a riguardo?
«Oggi la creatività viene sviluppata in modo diverso, si è tutti in contatto, i social consentono uno scambio continuo, una condivisione totale, un accesso illimitato a tutto ciò che accade nel mondo. E poi puoi ascoltare migliaia di canzoni quando e dove vuoi. La trovo una cosa straordinaria. Ora i giovani sanno tutto, mentre noi siamo cresciuti nell’ignoranza, e l’ignoranza spinge a commettere molti errori».