Il volume del Mein Kampf in una biblioteca tedesca
Settant’anni dopo la morte di Adolf Hitler (2015) il libro programmatico del regime nazista, Mein Kampf, è diventato di dominio pubblico. Molte le discussioni sull’opportunità o meno di ripubblicarlo in edizione critica e commentata. In realtà l’anno scorso l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera ha finito il lungo lavoro di ricostruzione critica del testo iniziato nel 2009, dando alle stampe i due volumi che lo compongono. Hanno venduto 85mila copie circa, stando ai dati dell’Istituto di Storia contemporanea. La prima edizione del 1925, circa sei mesi dopo la liberazione di Hitler dai tredici mesi di carcere per il fallito colpo di Stato del novembre del 1924, vendette non più di 10mila copie. Raggiunse le 240mila copie qualche anno dopo il cancellierato del gennaio del 1933 per raggiungere nell’aprile del 1945, mese del suicidio di Hitler, dodici milioni. Non fu certo un libro comprato per occupare spazio nella biblioteca di famiglia. Fu letto, e tanto. Si continua a leggere ma senza redini. Oggi soprattutto nei paesi islamici, è bene ricordarlo. Ma cosa si sta leggendo o si dovrebbe leggere, interpretare e confutare? Un programma politico attuato nei minimi particolari, soprattutto per ciò che riguarda lo sterminio degli ebrei? O solo i vaneggiamenti di un megalomane che ha avuto la fortuna di realizzare ciò che una mente contorta e sproloquiante aveva formulato nella solitudine di un’esperienza comune a milioni di soldati nel cuore della prima guerra mondiale?
Non ci sono risposte certe, neppure nella immensa letteratura storica che si è sviluppata sull’argomento. Tantomeno in questo libro di Peter Ross Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia tradotto da Newton Compton (pagine 330, euro 12,00) subito dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti nel 2016. È un classico prodotto del giornalismo a stelle a strisce con ambizioni storiche: scorrevole, qualche volta troppo; zeppo di dettagli umani troppo umani: la bassa statura dell’agitatore politico che all’epoca era Hitler; i consumi di birra la sera del putsch nella Bürgerbräukeller di Monaco, il conto non pagato, i cioccolatini delle ammiratrici di Hitler troneggianti sulla tavola della confortevole cella del carcere di Landsberg e tanti altri dettagli di questo tipo. In alcuni casi occhieggia il noto argomento di Pascal del «naso di Cleopatra», fosse stato più corto la storia sarebbe cambiata. Nel contesto del grande filosofo si trattava di una riflessione sull’incostanza, la debolezza e la vanità dell’uomo, qui rischia di essere una futile divagazione intorno a una delle più devastanti tragedie della modernità. Leggendo questa dettagliata ricostruzione delle circostanze nelle quali Hitler ha concepito e realizzato il suo libro, non paiono necessari ulteriori approfondimenti. In realtà, solo lo sguardo filosofico e politicamente consapevole di un vero filosofo della storia come Eric Voegelin nelle sue lezioni dedicate a Hitler e i tedeschi (Edizioni Medusa), può essere in grado di spiegare l’influenza sulla Germania del tempo di un libro come il Mein Kampf. Si tratta di quello che chiama analfabetismo culturale. In altre parole l’incapacità a dominare e articolare il linguaggio per gli ambiti fondamentali all’azione.
Considerazione che si sposa altrettanto bene a ciò che Karl Kraus diceva del pensiero nazista, che affascina «per la sua capacità di rendere degno di fede chi, in mezzo a una quantità di bugie, dice per una sola volta la verità». Ecco, il libro di Ross Range non pare attingere a questo genere di consapevolezza. Detto questo, la ricostruzione di un anno fondamentale per il futuro dittatore tedesco, è pregevole e dettagliata. Utilissima, grazie alla sensibilità tipica del giornalismo americano, a delineare le tattiche e le strategie comunicative di un personaggio che riuscì a manipolare con determinazione e caparbietà le debolezze di un sistema politico giudiziario non più all’altezza della nuova situazione storica di un vulcano». che si stava delineando.
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