La cantautrice e polistrumentista canadese Loreena McKennitt in concerto - ©John Fearnall/GoodNoise.ca
La strada verso casa per Loreena McKennitt riporta ad un mondo più semplice e umano, dove trovare conforto e familiarità. E questo il “fil rouge” del nuovo album della polistrumentista canadese, The road back home, un album che l’amatissima artista di origine irlandese, che ha collaborato fra gli altri con la Real World di Peter Gabriel ed ha venduto 14 milioni di dischi nel mondo, riporta agli inizi della sua carriera e alle sonorità celtiche più tradizionali: fra i dieci brani presenti alcuni sono degli inediti da lei mai registrati. The road back home è stato registrato durante l’estate del 2023, durante le esibizioni di quattro festival folk nel sud dell’Ontario, ed è un ritorno alle sue radici, raccogliendo anche la spontaneità delle esibizioni live, fra delicatezza evocativa e scoppi di energia.
La McKennitt si racconta ad Avvenire in vista del ritorno nel nostro Paese nella seconda metà di luglio per cinque show incentrati sul trentennale di The mask and the mirror, uno dei suoi album più amati che univa in modo eclettico musica celtica, indiana e del Nordafrica: sarà il 20 luglio al Forte di Bard, il 21 luglio a Pratolino (Firenze), il 22 luglio a Roma (Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone), il 24 luglio a Udine e il 25 luglio a Merano.
Signora McKennitt, come è nato il disco The road back home?
A Stratford, in Ontario, dove vivo dagli anni Ottanta, ho incontrato per caso un gruppo di musicisti celtici con cui ho lavorato in una serie di concerti natalizi nel 2021 (pubblicati nel 2022 come Under a winter’s moon). Poi è nato il tour estivo l’anno scorso dove ho recuperato alcuni brani tradizionali che cantavo negli anni 70, ma che non ho mai registrato. Alla fine ci siamo resi conto che occorreva farne un disco live. Nei miei tour io invito la gente a imparare gli accordi e a cantare insieme. Alla gente voglio dare l’opportunità di non dimenticare questo aspetto della loro umanità ovvero l’essere comunità.
Cosa significa per lei tornare a casa?
Questo disco riporta a tempi più semplici. E’ affascinante vivere in questo periodo di tempo della mia carriera: ho 67 anni, sono nata analogica, ma da 20 anni è arrivato internet, siamo più connessi, ma è anche tutto più complicato. Abbiamo perso lo spazio tra le cose per riflettere, il tempo per riflettere ti fa andare in profondo. C’è in queste mie canzoni la nostalgia di un periodo senza i media, dove le persone si guardavano le une con le altre e imparavano, gli uomini non erano spettatori ma partecipavano. La musica è un straordinario media per connettersi al pubblico: non è mai troppo tardi per imparare a suonare uno strumento o a cantare in un coro.
Lei si sente una “resistente” in un mercato musicale dove la tecnologia ha stravolto tutti i codici?
Il mio è un invito a tornare a qualcosa di più intimo e personale, all’autenticità di questa esperienza di comunità che è potente anche ora nell’era dell’intelligenza artificiale. Per colpa di colossi della tecnologia perdiamo il contatto con la nostra umanità, la musica invece è qualcosa che possiamo condividere, un linguaggio universale. Il mio pubblico è composto da tante generazioni diverse, dai nonni fino ai bambini e io parlo dei rischi della tecnologia nei miei concerti.
Loreena McKennitt è stata una pioniera della musica celtica contemporanea. Come si è avvicinata a questo genere?
Tutto è iniziato quando mi sono avvicinata alla musica celtica tradizionale, cioè in un club folk di Winnipeg, nel mezzo delle praterie canadesi, alla fine degli anni 70. Quella musica mi ha subito affascinata. Il club era frequentato da canadesi, ma anche da irlandesi, scozzesi, inglesi, a cui mi sentivo istintivamente legata da quelle sonorità. E in quella comunità di persone si condivideva la musica in un modo che non aveva nulla a che fare con le performance: era solo un mezzo per passare del tempo insieme. Così ho cominciato, poi sono rimasta affascinata anche dalla musica di Alan Stivell.
Un genere musicale che le ha portato grande successo: come mai piace tanto in tutto il mondo secondo lei?
Pensi che ho un fan club anche in Turchia. C’è un qualcosa in questa musica che parla dal profondo e che non mi spiego. Inoltre l’uso della voce, che ho cresciuto in modo classico, è così evocativo e senza tempo, contribuisce anche all’universalità di questo genere musicale.
Quanto conta il fatto di essere imprenditrice di se stessa?
Io non ho mai avuto un manager, ho gestito da sola la mia carriera fondando la mia etichetta, Quinlan Road. Dal 1985 al 1990 gestivo la mia attività dal tavolo di cucina, vendendo le mie registrazioni in musicassetta per posta e producendo i miei tour, fino al 1991, quando Warner mi ha connesso in licenza con loro. Io ho sempre finanziato i miei tour, i miei dischi e i miei video, occupandomi di marketing e promozione. Loro non rischiavano finanziariamente coi miei progetti e questo mi ha permesso di avere la tranquillità finanziaria e la libertà per continuare ad essere come sono.
Cosa descrivono i brani tradizionali dell’ultimo album?
Un tempo si scriveva molto dell’amore e sulla natura. Per esempio la canzone Bonny Portmore, un brano tradizionale che ha 150 anni, mi ha attratto sin dall’inizio perché si lamentava per l'abbattimento di un albero importante e allargava l'attenzione al fatto che gli alberi che stavano cadendo stavano causando una perdita di habitat per gli uccelli e la fauna selvatica. Esprime la preoccupazione per gli alberi che venivano abbattuti in Irlanda per costruire le navi per l’impero britannico, ma anche in Canada tanti alberi venivano abbattuti per creare le città. Si tratta di un tema molto attuale.
Anche lei è impegnata in diverse cause sociali, fra cui la difesa dell’ambiente.
Mi impegno attivamente in diverse cause, dal miglioramento della sicurezza dell’acqua alla promozione della diversità culturale e alla riconciliazione con le popolazioni indigene. In particolare ho acquistato la Falstaff School a Stratford e, nel 2002, ha fondato il Falstaff Family Centre, che offre strutture a comunità e gruppi familiari di volontariato e no-profit. In pratica viviamo in una fattoria dove supportiamo associazioni multiculturali e molti rifugiati che arrivano in Canada, fra cui tre famiglie ucraine, oltre a famiglie indigene. In Canada c’è un processo di riconciliazione con gli indigeni, che hanno avuto sempre una forte connessione con la natura, e insieme a loro abbiamo avviato un processo di rigenerazione dell’habitat naturale. Noi abbiamo l’obiettivo di non prendere più di quello che ci serve e di consumare tutto quello che abbiamo. In un questa società del consumo in cui rapiniamo la terra e in cui abbiamo una mala interpretazione del progresso, tentiamo un piccolo progresso morale.