sabato 23 settembre 2023
Esce “Stella Maris”, ultima opera dell’autore scomparso nel giugno scorso che completa il dittico con “Il passeggero”: paziente e psicanalista dialogano tra inconscio, scienza, musica. E Dio
Cormac McCarthy

Cormac McCarthy - Epa

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Un puro dialogo, proprio come Sunset Limited (2006). Una dicotomia tragica sbilanciata sulla protagonista, la geniale Alicia Western. È questo Stella Maris (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, pagine 200, euro 18,50), il canto del cigno di Cormac McCarthy, che completa la dilogia iniziata con Il passeggero. «Ebrea caucasica», laureata a sedici anni, ora ventenne e dottoranda in matematica alla Chicago University, affetta da schizofrenia paranoide, sociopatia deviante, probabile anoressia, con un QI non testabile, Alicia racconta le sue ossessioni al dottor Cohen nella clinica psichiatrica Stella Maris, a Black River Falls in Wisconsin. Ottobre 1972. Nel freddo referto iniziale scopriamo che la paziente, al suo arrivo – è il terzo ricovero alla Stella Maris –, «aveva nella borsetta una busta di plastica piena di banconote da cento dollari – poco più di quarantamila dollari in totale – che ha cercato di consegnare alla receptionist».

Ha ormai detto addio ai «famigli», il Talidomide Kid e i suoi sodali, le spaventose allucinazioni che la accompagnano sin dall’adolescenza. Sinestesica, esperta di violini cremonesi, abitata da una «fede» incrollabile nella matematica, Alicia è anche perseguitata dai ricordi: esattamente come il Funes di Borges, non può dimenticare nulla. Troppo vasto e intenso è il suo spettro cerebrale. Il padre era un fisico coinvolto nel progetto Manhattan. Il fratello Bobby – il protagonista del Passeggero, sommozzatore e pilota di Formula 2 – è l’amore della sua vita: per lei la parola “tabù” non ha significato perché l’obiettività della realtà stessa sembra evaporare in un soggettivismo post-berkeleiano, privo di contatto esterno, sconfortante, tautologico («Il guaio con il mondo perfetto e oggettivo – di Kant o di chiunque altro – è che è inconoscibile per definizione. Anche se amo la fisica io non la confondo con la realtà assoluta. È la nostra realtà»).

Alicia ha lavorato per anni alla topologia («Quando arrivi alla teoria dei topoi ti affacci su un altro universo. Hai trovato un posto da dove puoi voltarti a guardare il mondo dal nulla. Non è solo una configurazione qualsiasi. È basilare»), e snocciola a menadito i suoi unici veri amici: Grothendieck, Cantor, Feynman, Gödel, Kant, Husserl, Quine, Wittgenstein, Oppenheimer naturalmente. Ha letto diecimila volumi all’incirca. Crede fermamente che la musica non alluda a nient’altro che a sé stessa e cita Schopenhauer: «Se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica».

Frequenti sono le interrogazioni filosofiche: la realtà ha coscienza di sé e di noi? Come avviene il passaggio dalla mente al mondo? («Cento miliardi di eventi sinaptici che ticchettano nel buio come cieche signore sferruzzanti») Perché c’è qualcosa anziché niente? E ancora: «Se la musica era qui prima di noi, per chi lo era?». Altrettanti sono gli ustionanti apoftegmi: «Perché ci sia pazzia ci dev’essere linguaggio». Così come le citazioni varie da Montaigne al Finnegans Wake di Joyce («Eravamo júngani e facilmente freudlietate»). La posizione di Alicia sulla «verità» è abbastanza chiara: «Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere». Epperò spunta qualche improvviso sfolgorio: «Io penso quello che pensa la maggior parte della gente. Che a guarire è l’accudimento, non la teoria. Il bene sparso per il mondo. E in ultima analisi potrebbe addirittura darsi che tutti i problemi siano problemi spirituali».

E il dottor Cohen? Un ottimo ascoltatore che assicura tè e sigarette, un rasserenante spettatore del vertiginoso show di cultura scientifica della ragazza, la quale conosce il respiro delle balene e dei delfini e pone l’inconscio a capo dell’intero funzionamento dell’esistenza («L’inconscio è stato ingaggiato per svolgere un lavoro ben preciso. Non dorme mai»).

Nel romanzo di McCarthy – l’exotopia del femminile è riuscita, benché il bagaglio d’erudizione sia davvero straripante per cucirlo su una mente di vent’anni – emergono profonde risacche saggistiche che collocano l’opera ancora al di qua del postmodernismo. Trascorrere un paio d’anni al Santa Fe Institute (con David Krakauer in veste di cicerone, magari) aiuterebbe a capire meglio i tanti sottintesi di Stella Maris. Per di più, il legame con l’unico scritto teorico mccarthiano The Kekulé Problem (2017), in alcuni punti, passa per la citazione diretta: «Le uniche regole evolutive che il linguaggio osserva sono quelle necessarie alla sua stessa costruzione. Un processo avvenuto in poco più di un batter d’occhio. La straordinaria utilità del linguaggio lo trasformò in un’epidemia folgorante. Sembra che si sia diffuso quasi istantaneamente in tutte le sacche più remote dell’umanità».

Fin qui torna tutto. I conti sono già stati fatti nel Passeggero: nulla che non sia in chiave con la persuasione di un universo governato dal male, lo gnosticismo feroce, uno scientismo affidabile ma non troppo, il tecnoletto spinto alla minuzia, l’orrore gotico, l’intelligenza, il lirismo barocco, il rovello di Dio, il nichilismo, il relativismo ontologico. Questo è McCarthy, «okay». Ma perché quel titolo? Stella Maris è un libro sui limiti: della matematica, della coscienza, del linguaggio, della disperazione. «Guarda la stella, invoca Maria», diceva san Bernardo. Ogni cosa era dicibile della malvagità e del dolore, anche l’indicibile. Ma c’era una speranza in McCarthy, tenuissima, forse diventata una sola sigla, un solo nervo scoperto, su cui gli è parso impossibile aggiungere altro: Stella Maris. L’intarsiato latino litanico. (Anche in direzione allegorica: Alicia è la “stella polare” del “passeggero” Bobby.)

E proprio nella prima pagina lo scrittore di Providence si affretta a chiarire: «Fondata nel 1902. Dal 1950 struttura aconfessionale e casa di cura per pazienti psichiatrici medicalizzati». Come a radicalizzare, isolandola, ibernandola, la sua scelta. Ave Maris Stella. Quando sei spinto sugli scogli delle tribolazioni, quando sei sballottato sulle onde dell’orgoglio, guarda la stella. «Non abbiamo mai veramente parlato del perché è tornata alla Stella Maris. / Non avevo nessun altro posto dove andare».

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