Matt Haig - Kan Lailey
Matt Haig se lo ricorda ancora, quel seminario universitario su Graham Greene. «Ero l’unico studente di un corso su un autore che in quel periodo era considerato particolarmente fuori moda – dice –. Per me fu una scoperta. Rimasi conquistato dalla sua capacità di mettere in relazione l’astratto con il concreto. Una frase come “Bevve l’acquavite di colpo, come la dannazione” continua a esercitare un grande fascino su di me, anche se da molto tempo ho smesso di esagerare con l’alcol. Da Graham Greene penso di aver imparato a dare un nome alle cose. Tutto, perfino la depressione, smette di fare paura quando riesci a nominarlo».
Nato a Sheffield nel 1975, Haig è oggi uno dei più apprezzati ed eclettici scrittori britannici. Ha pubblicato romanzi raffinati, tra cui Il patto dei Labrador e Come fermare il tempo, libri per ragazzi, saggi d’impegno sociale come Vita su un pianeta nervoso e l’autobiografico Ragioni per continuare a vivere, che nel 2015 è stato un best seller in Gran Bretagna e che ora viene tradotto da Elisa Banfi per e/o, la casa editrice che ha in catalogo molte delle opere di Haig (pagine 288, euro 16,50). «È la storia della mia depressione – spiega l’autore –. Ma ho scoperto che non è una storia soltanto mia, nella quale tanti altri si riconoscono».
Eppure è un resoconto molto personale.
«Non potrebbe essere altrimenti. Chi ha sofferto di depressione sa bene di dover trovare in sé la via d’uscita da un’interiorità che è diventata dolorosa. Sembra un circolo vizioso e in parte lo è, ma proprio per questo può essere spezzato solo prendendosi cura di sé, dedicandosi alle proprie passioni e cogliendo ogni occasione di benessere. Non si tratta di egoismo, né di un meccanismo magico o automatico. La depressione insegna, tra l’altro, che ciascuno di noi vive in un equilibrio delicatissimo tra la propria interiorità e il mondo esterno».
Per questo la relazione con gli altri è così importante per uscire dalla depressione?
«È stato così per me e per molte altre persone di cui ho raccolto la testimonianza. La malattia si è manifestata quando avevo 24 anni e da qualche mese ero legato ad Andrea, la ragazza che in seguito è diventata mia moglie. Il suo amore è stato fondamentale per la mia guarigione, e non meno decisivi sono stati l’affetto e la vicinanza dei miei genitori. Ma questo non significa che chi si trova in una condizione diversa sia da considerare spacciato. Se anche venisse meno la relazione con gli altri, si può comunque decidere di continuare a vivere per sé stessi o, meglio, per il proprio futuro. Nel libro metto spesso in scena il dialogo tra il me stesso di allora, tentato dal suicidio, e il me stesso di oggi. Ce la puoi fare, gli dico, puoi arrivare a vivere la mia vita: scrivere, essere sposato, essere padre…»
Perché è ancora difficile parlare della depressione?
«Perché è una malattia invisibile, anzitutto. I sintomi esteriori, quando esistono, sono poco appariscenti. Puoi dare l’impressione di essere perfettamente in forma e, nello stesso tempo, avere la sensazione di sentirti morire. Sei intrappolato in te stesso, appunto, ma nessuno se ne accorge. Deriva da qui uno dei peggiori pregiudizi sulla depressione, quello che la equipara a una debolezza di carattere. Se sei abbastanza forte, si pensa, non ti butti giù. E se sei abbastanza forte, presto o tardi ti tiri su. I maschi sono i più penalizzati, perché un uomo non può permettersi troppe delicatezze verso sé stesso. E sono i maschi depressi, infatti, a morire suicidi con maggior frequenza, schiacciati da un sentimento di vergogna. Io stesso ho impiegato una decina d’anni per uscire allo scoperto. Pur essendo guarito, non avevo ancora superato l’imbarazzo. Uno dei motivi per cui mi sono deciso a scrivere il libro è esattamente questo: ribadire che la salute mentale non è meno preziosa della salute fisica. Di nuovo, c’è in gioco lo scambio tra interno ed esterno, tra mente e corpo. Sappiamo ancora troppo poco del cervello, ma dobbiamo fare tesoro di ogni conoscenza disponibile».
Le società in cui viviamo, però, non costituiscono un ambiente favorevole…
«Tutt’altro. La spinta a essere sempre attivi e sempre più produttivi è un fattore di ansia per tutti e non è un caso che la depressione e altri disturbi mentali siano sempre più diffusi. Da questo punto di vista, il 2020 potrebbe rappresentare un momento di svolta. La pandemia ci ha indotti a rallentare, a passare più tempo con i nostri cari, a rivedere interrogarci su quello che davvero conta nelle nostre vite. Certo, non si può immaginare che il mondo occidentale torni indietro di quarant’anni, ma intorno a me vedo segnali incoraggianti. In Gran Bretagna, per esempio, non esiste una socialità diffusa paragonabile a quella dell’Italia e di altri Paesi mediterranei. Quando è scattata l’emergenza, molti qui da noi non conoscevano i propri vicini, con i quali ora intrattengono un rapporto più cordiale. Il senso di comunità si è lentamente risvegliato, adesso sta a noi non sprecarlo».
In che modo?
«Dobbiamo convincerci sempre di più che il successo di una società non si misura sulla base del mero risultato economico. L’uomo deve tornare al centro di ogni processo, primo fra tutti il lavoro. I dati su depressioni e burnout indicano da tempo che il sovraffaticamento è non solo improduttivo, ma ha anche costi sociali molto alti: ci si ammala di più, si ha più necessità di essere curati. Scatta, insomma, un altro circolo vizioso».
Lei ha qualche suggerimento?
«Credo che sia irrinunciabile la dimensione dell’ascolto, di sé e degli altri: prestare attenzione, lasciare uno spazio di silenzio, non lasciarsi frastornare dall’eccesso di informazioni. Solo così si riescono poi a trovare le parole giuste per dare un nome alla bellezza e alla sofferenza, alla paura e alla speranza. Alla fine, è il linguaggio a rendere visibile la realtà. È nel linguaggio che ritroviamo il significato più profondo della nostra umanità».