La cantautrice Nicoletta Marchica, in arte Marquica - / Alisson Marks
«Il mio più bel disco? È mio figlio. La sua nascita resterà sempre il mio più grande successo». Nicoletta Marchica è diventata in arte Marquica perché la “q” le sembrava esteticamente più bella della “c”, ma è rimasta la stessa Nicoletta che da bambina già a 5 anni saliva sul palcoscenico per cantare. Un’età d’oro vissuta sulle altitudini di Tirano, ma ancestralmente radicata nella Sicilia del padre. «Mi è più congeniale, ci sono andata per la prima volta a 18 anni ma è come se avessi vissuto sempre là. Da allora ogni volta che ci torno ritrovo le mie più antiche origini. Il mio cognome lì è piuttosto diffuso, ma viene dalla Spagna e così quando per gioco ci ho messo la “q” l’ho riportato alla terra madre». Già, la maternità. Un valore totalizzante per l’“incantautrice” da vent’anni milanese di adozione che ha appena cantato il dramma di una bambina promessa sposa a soli dieci anni e si prepara a cantare il dramma dei sempre più numerosi nascituri costretti a convivere con le microplastiche già nel grembo materno.
Marquica, come le è venuta l’idea di questo futuro progetto e come s’intitolerà?
Il titolo dovrebbe essere Nati con la camicia... di plastica perché si ispira all’omonimo libro scritto dal dottor Antonio Ragusa, che è direttore di ostetricia e ginecologia all’ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma. Lui è anche il mio ginecologo e quando mi ha parlato della ricerca che aveva condotto e che è alla base del libro, sono rimasta esterrefatta. Nella placenta di cinque donne su sei sono presenti microplastiche che entrano nei nostri corpi forse attraverso ciò che mangiamo e con la respirazione. Voglio dare il mio contributo a divulgare e sensibilizzare su questa emergenza. E non posso che farlo attraverso la musica e le canzoni. Ho già cominciato a scrivere, ma ci vorrà ancora un po’ di tempo. Il liquido amniotico è il mare che accoglie i nostri figli e io sul mare ho già fatto uno spettacolo.
Di cosa si trattava?
Si intitolava Storie di mare e piccole terre ed era andato in scena lo scorso maggio all’auditorium Santa Chiara di Trento. Una fiaba ecologica del musicista Maurizio Dini Ciacci con la regia del premio Oscar Luc Jacquet, quello de La marcia dei pinguini. La voce recitante era di Dario Vergassola e io insieme alla pianista Isabella Turso, a Dargen D’Amico e a Michele Tadini ho curato la parte musicale dando voce a immaginari pesci parlanti abitanti di un mare sempre più inquinato e sempre meno accogliente.
Quasi una prova generale del suo musical...
Sì, si ispira anche ai temi su cui ho scritto e cantato a Trento. Vorrei davvero divulgare questa incredibile emergenza, con l’inquinamento che sta arrivando nel luogo che dovrebbe essere il più protetto possibile: il grembo materno. Il dottor Ragusa intuì qualcosa scorgendo in un tratto di mare sardo, vicino a delle isolette raggiungibili solo via mare, un’infinità di quasi invisibili pezzettini di plastica. Da lì l’input per la sua ricerca. Io sono molto sensibile a tutte le problematiche che riguardano il clima, la natura e l’uomo, a partire dall’infanzia.
Così è arrivata la canzone La sposa bambina... Un singolo che sta avendo successo sulle piattaforme online.
Avevo letto questa storia su un quotidiano, ho pianto ed è nato il pezzo di getto. Racconta di Sheila, una bambina che vive a Milano, in mezzo a noi, dentro una civiltà che non contempla queste cose. Eppure lei era stata promessa sposa a soli dieci anni a un uomo, un assurdo matrimonio combinato. Per fortuna sua madre ha avuto il coraggio di ribellarsi e di denunciare. Il fatto risale al 2018 e la canzone è rimasta nel cassetto per un bel po’ finché l’ho fatta sentire a un amico che mi ha convinta a inciderla. Poi, proprio quando stava uscendo il pezzo prima di Natale, ho saputo che quel padre padrone è stato condannato e arrestato. Ho voluto lanciare un mes- saggio sull’infanzia negata e dare anche un concreto aiuto a Emergency del compianto Gino Strada. Una parte dei proventi del brano andrà infatti a sostegno del centro di maternità di Anabah, nella valle del Panshir, in Afghanistan, dove Emergency nel 2003 ha costruito quella che è tuttora l’unica struttura specializzata e gratuita nella zona. Da quando è entrato in funzione e fino al dicembre del 2020 sono state ricoverate più di 90 mila donne e sono stati fatti nascere più di 65 mila bambini. Le storie dei bambini mi colpiscono profondamente. Ma in generale nelle mie canzoni tendo a raccontare storie vere, come nel precedente disco La teoria della ghianda.
Perché è stata definita “incantautrice”?
È successo a Trento, in occasione dello spettacolo di dieci mesi fa così sospeso tra fiaba e reale emergenza ecologica per il quale ho composto canzoni sulla natura e il suo incanto. Una definizione che mi è piaciuta molto, ammetto. Cantare, e forse anche incantare, è una mia missione. E scrivere canzoni è un’esigenza. Certo, do spazio anche a spunti di pura fantasia ma io propendo per le storie vere, per la realtà. Compresa quella filtrata attraverso i social, che comunque non amo. Sono pericolosi e fuorvianti. Mio figlio adolescente cerco di tenerlo ancora alla larga, finché riesco.
Ma lei dovrà pure frequentare il mondo social...
Sì, certo, per un artista è imprescindibile. Ma per me è un grande dramma, mi pesa tantissimo dover dire cosa faccio, cosa sto mangiando, con chi sono e tutte queste cose personali. È un’invasione totale. Però se non fai i tuoi bei post quasi quotidiani, i follower smettono di seguirti.
E alla fine viene l’Ansia, per citare un suo precedente singolo. A quando invece il secondo album?
Ci sto lavorando proprio ora. È il mio prossimo progetto, forse prima ancora del musical sulla terra minacciata ispirato al libro sulle microplastiche. Realizzare un album, ora come ora, è certamente una scommessa visto che oggi si punta molto sui singoli. Però che belli erano i vecchi long playing: Mina, Battisti, Queen, passando per Frank Sinatra fino ad Aretha Franklin. Ho fatto tesoro degli ascolti in famiglia. Lì è poi nata la mia passione per la black-music e quelle sonorità tra gospel e dintorni.
Fino a diventare la voce dei Dirotta su Cuba al posto di Simona Bencini...
Un genere un po’ diverso da quello che preferivo, ma venni presa. Era il 2005 quando scrissi con loro l’album Jaz. Ecco, proprio scrivere è il mio ideale percorso. Avevo 15 anni quando buttai giù la mia prima canzone, con quel pianoforte iniziato a suonare da piccola. Ero una sposa bambina della mia musica.