Giovanna Marini recupera i canti delle carmelitane e canta Bernanos. Dal 1968 la musicista romana (cantante, studiosa, insegnante, pietra miliare dell’etnomusicologia italiana) viaggia in lungo e in largo per l’Italia raccogliendo i canti della tradizione orale italiani, compiendo un’opera di salvaguardia storica, ma facendone anche materiale vivo per i suoi spettacoli. Dopo aver debuttato da poco al Teatro di Roma nella celebrazione del friulano in
Sono Pasolini, insieme ai suoi giovanissimi allievi della Scuola Popolare di Musica di Testaccio porterà in scena a Bologna il 18 dicembre
Te Deum per un amico prodotto da Angelica, Cineteca di Bologna e ERT Emilia Romagna Teatri Fondazione dedicato all’amico scomparso Giuseppe Bertolucci.
Nei suoi spettacoli storia, musica e attualità si mescolano. «La storia ci insegna a leggere il presente. Nel
Te Deumparto dalla Rivoluzione Francese per arrivare ai migranti di oggi, un esempio di guerra di classe fortissimo. Parlando con Giuseppe Bertolucci del-
Dialogo delle Carmelitane ci colpiva il giustissimo riferimento antropologico e sociale di Bernanos sul microcosmo del convento in cui già era viva la lotta sociale, riflesso della vita tumultuosa del mondo esterno travolto nella Rivoluzione Francese sul nascere. La nobile Blanche, entrata in convento soprattutto per paura del mondo esterno, è accusata di codardia da Constance, la monaca di estrazione contadina che, al contrario di lei, sembra non provare paura e non ha alcuna intenzione di lasciare l’ordine [fedeltà che, alla fine, costerà loro la ghigliottina,
ndr]. Userò alcuni antichi canti delle carmelitane e delle parole di Bernanos. Una riflessione ad alta voce su drammi e martirii di ieri e di oggi, su come i tempi, i momenti storici, si assomiglino tutti. Ma come noi non siamo capaci di riconoscerli e affrontarli».
Lei, però, oltre all’aspetto sociale ha anche affrontato spesso l’aspetto più “sacro” del canto popolare, specie quello legato alle tante festività religiose italiane. «Certo. Ho seguito la maggior parte delle feste religiose del nostro Paese in questi 50 anni. Tutte le Pasque con i miei studenti del Testaccio le passiamo a seguire una festa religiosa popolare. A partire dall’Ufficio
delle tenebre (
Officium Tenebrarum) che si compone del canto dei salmi, delle lamentazioni, dei responsori, del
Benedictus e del
Miserere e si celebra le sere del mercoledì, del giovedì e del venerdì santo. Una tradizione che purtroppo inizia a scomparire in molte parti d’Italia. E restiamo fino alla domenica di Pasqua. È interessantissimo. Vengono tutti i miei allievi, credenti e non. L’ultima volta abbiamo passato 8 ore di seguito in chiesa a registrare i canti di una liturgia ortodossa lunghissima a Piana degli Albanesi, ed è stato affascinante. Si ha l’occasione di misurarsi con questa fede così bella, pura e innocente della gente più povera. Ma, per contro, si assiste anche a come questa, a volte, accetti serenamente che alcune processioni si fermino davanti alla casa del boss mafioso. C’è tutta una serie di contraddizioni in quei luoghi, ma non basta intervenire brutalmente su famiglie povere, che hanno bisogno. Bisogna lavorare invece sui bambini piccoli a scuola, insegnare loro cosa vuol dire civiltà, un mondo dove bisogna essere solidali in modo onesto gli uni con gli altri, se no si vive in guerra».
È vero che lei ha inventato un metodo per catalogare la musica popolare? «Più che un metodo, ho deciso di trascrivere i brani con un certo sistema, usando il pentagramma, ma togliendo ad esempio la stanghetta, e aggiun- gendo altri segni accessori per capire di più. La musica polare italiana dei nostri contadini è musica antichissima, cantata in modo diverso dalla musica classica. La musica contadina è cadenzata con le sillabe, per questo è importante la parola, ha una cadenza oratoria. Sinora avrò registrato 600 canti coi miei ragazzi. Purtroppo i giovani interessati sono una nicchia e il nostro patrimonio è a rischio».
I tempi sono cambianti da quando lei, ragazza, collaborava con intellettuali come Italo Calvino, Gianni Bosio, Dario Fo, Pierpaolo Pasolini. Un impegno “militante” il suo che fu anche discusso. «Io mi sono diplomata nel 1959 al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e mi occupavo solo di musica classica. Piano piano, sentendo parlare Pasolini ho cominciato ad avvicinarmi alla cultura popolare. Poi sono andata in America e ho visto cosa succedeva lì. Così ho scoperto il canto sociale e mi sono unita al
Nuovo Canzoniere Italiano, che vedeva insieme cantautori politici Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli, ma anche cantanti contadini come Giovanna Daffini e i Pastori di Orgosolo. Nel 1964 mi presentai al Festival dei Due Mondi di Spoleto con lo spettacolo
Bella Ciao, ideato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli che suscitò scandalo perché cantammo la versione integrale di
O Gorizia, tu sei maledetta, canto della Prima Guerra Mondiale in cui si accusavano gli ufficiali. Nel ’68 cominciò la mia avventura in giro per l’Italia a raccogliere i canti della tradizione popolare e a scoprire un mondo così bello».
Lei a Pasolini ha dedicato vari spettacoli. «In questo
Sono Pasolini, con Enrico Frattaroli, mettiamo in scena
I giovani infelici e le poesie della-
Nuova Gioventù. Soprattutto per farlo conoscere ai giovani, che non sanno nemmeno chi è. Stavolta affronto il friulano che lui tanto amava e che cercava di fare apprezzare ai suoi paesani che la consideravano la lingua dei poveri. La figura di Pasolini è tridimensionale, c’è lui, la sua anima i suoi due estremi: la sua ferrea intelligente logica e il potere sintetico e divinatorio. Basti pensare che già negli anni 50 si schierava fortemente contro il consumismo. Io l’ho incontrato qualche volta, quando andavo a trovare Laura Betti che abitava di fronte a lui alla Garbatella. Era un uomo di grande carisma, parlava in modo riflessivo, cercava le parole assolutamente attinenti, voleva che la parola fosse perfettamente legata al pensiero, ma anche al gesto. Mi piaceva molto, lo trovavo diverso da tutti. Amava molto la musica, e adorava sua madre. Ogni tanto faceva capolino a casa di Laura prima di uscire e le faceva capire di darle un occhio alla mamma che restava da sola. Un tocco così umano che mi ha sempre colpito».