Maria Zambrano - WikiCommons
Tra l’ombra e la luce si apre inattesa la radura, una luminosità filtrata, timida e coraggiosa, che lotta contro fronde e fogliame, ma che non si estingue mai. Donna riservata e tenace, donna dell’erranza e della speranza, donna dei mormorii e delle parole silenziose che vanno ben oltre le formule felici, María Zambrano non può che avere una casa lì, nella radura, nei chiari del bosco, dove abitano il visibile e l’invisibile. Anche il posto che la pensatrice occupa nella filosofia contemporanea ondeggia sempre tra l’oscurità e la ribalta. Se oramai compare di frequente accanto ai “grandi di Spagna”, José Ortega y Gasset e Miguel de Unamuno, al punto da venire incoronata, nel 1988, con il premio Cervantes, assegnato per la prima volta a una donna per un’«obra de pensamiento », il suo pensiero non incontra ancora un riconoscimento unanime. A essere osteggiato spesso è il suo stile più prossimo al linguaggio poetico che a quello filosofico.
Di María Zambrano ora l’editrice Morcelliana inaugura la pubblicazione delle opere. A tenere a battesimo l’iniziativa è L’uomo e il divino (pagine 440, euro 32,00), forse il libro più importante della pensatrice spagnola, che esce con la curatela di Armando Savignano e una importante postfazione di Jesús Moreno Sanz, che sottolinea bene le differenze tra la prima edizione del 1955 e la successiva del 1973. A breve seguirà, nel piano delle opere previsto dall’editore, il volume L’amore a Segovia che riporta lo scambio epistolare con Gregorio del Campo.
Anche se provassimo a evocare altre figure femminili protagoniste della storia della filosofia, da Edith Stein a Simone Weil, e se, per l’afflato della scrittura, la raffrontassimo a san Giovanni della Croce o a santa Teresa d’Ávila, non si fugherebbe la sensazione di spaesamento provocata dalla scrittura di Zambrano. Si ha la tentazione, procedendo nella lettura, di mettere a tacere ogni domandare, per entrare sommessamente in punta di piedi, quasi per non disturbare chi magari sta pregando o meditando su una vita che è diventata filosofia e una filosofia che è diventata vita. È proprio questo lo stile di pensiero proprio a María Zambrano. Una filosofia che rinuncia all’egemonia della ragione, alla logica speculativa, alla geometria e all’illusione di piegare la realtà alle sue leggi. Una filosofia che si preoccupa meno di dimostrare o spiegare quanto di toccare «le viscere quali ricetto del logos», rendendosi capace di illuminare quelle forme intime della vita umana, attraverso le quali l’uomo si fa uomo.
Dall’esilio, fonte inesauribile di riflessione, María Zambrano ha una lunga esperienza. Nata il 25 aprile 1904 a Vélez-Málaga, studia lettere e filosofia all’Universidad Central de Madrid, seguendo i corsi di Xavier Zubiri e José Ortega y Gasset. Ha ventisei anni quando pubblica il suo primo libro, Orizzonte del liberalismo. Nel frattempo collabora con numerose riviste, scrive su Nietzsche e Fichte, prepara la tesi di laurea su Spinoza, e diventa assistente di Ortega alla cattedra di metafisica. Sposata con lo storico e diplomatico Alfonso Rodriguez Aldave, si stabilisce a Santiago del Cile fino al 1937. Oppositrice del franchismo, rimane lontana dal suo paese dal 1939 al 1984, quattro anni prima della sua morte. Parigi, Cuba, Città del Messico, Porto Rico, e poi Parigi, L’Avana, Ginevra, Roma dove conosce Cristina Campo, sono le città che costellano la sua vita.
Durante le lunghe peregrinazioni, riconosciute da lei stessa come tappe esistenziali del cammino dell’anima, scrive gran parte della sua opera, sull’agonia dell’Europa, Seneca, Heidegger, Cervantes, Cartesio, san Giovanni della Croce... un’opera che diventa col tempo sempre meno politica e sempre più impegnata nella ricerca sul sacro e il divino, senza mai rinunciare a interrogare l’uomo stesso. «L’uomo di oggi - scrive nell’introduzione alla prima edizione - si azzarda a chiedere ragioni alla storia? Benché essa sia il suo idolo, farlo comporta chiedere ragioni a se stesso. Confessarsi, esercitare la memoria per liberarsi».
Amica di Antonio Machado, Octavio Paz, José Bergamin o Camilo José Cela, María Zambrano conosce Sartre e Simone de Beauvoir, e il suo pensiero non tarda di impressionare René Char, Cioran, Albert Camus. Sembra che quest’ultimo, il giorno del suo fatale incidente, avesse nella sua auto il manoscritto di El hombre y lo divino per valutarne la pubblicazione per Gallimard. L’uomo e il divino può considerarsi l’«autobiografia dell’Occidente », scritta a partire dal rapporto che l’uomo intrattiene con il divino nel corso del tempo. All’inizio di questa storia per Zambrano fa capolino il delirio, che «scaturisce da un anelito del fondo più oscuro della condizione umana », di cui l’uomo fa esperienza ancor prima di prendere coscienza. Dinanzi a esso l’uomo è muto, smarrito di fronte all’impenetrabile caos primitivo, che precede le cose. Questa realtà anteriore alle cose è «una irradiazione della vita ammonisce la pensatrice - emanata da un fondo di mistero, che corrisponde a quel che oggi chiamiamo sacro».
In questo universo oscuro, l’uomo riesce gradualmente ad aprire brecce, a sciogliere l’indistinto: «La primaria, originaria “apertura” della vita umana alle cose che la circondano, alle circostanze, è patirle. Le cose che non sono nulla diventano qualcosa quando le si patisce», quando l’uomo si sente guardato e osservato in maniera persecutoria. Solo allora è possibile il manifestarsi del divino nelle sue diverse forme. Da quel momento in poi, gli dei aprono spazi per l’uomo, mettono ordine, creano cose, governano. L’uomo ne percepisce la potenza, se ne preoccupa, si spaventa, al punto da sentirsi osservato.
All’interno di questi processi del divino Zambrano riconosce la specificità del cristianesimo, indaga la morte di Dio e la successiva deificazione che l’uomo fa di se stesso. Allora l’uomo si ritrova nudo e vuoto, esiliato da se stesso e immerso nel nulla, «che si comporta come il sacro all’inizio della nostra storia. Il fondo sacro, dal quale l’uomo si risvegliò a poco a poco, come dal sogno iniziale, riappare adesso nel nulla», aprendo la strada per un ritorno dell’uomo al divino.