Il cantautore Marco Ferradini con la figlia Charlotte: in autunno usciranno i loro rispettivi album
Aveva oscurato persino quelli di Euclide e Pitagora. Per gli studenti dei primi anni Ottanta pronunciare la parola “teorema” valeva intonare l’omonimo tormentone. E cantare «prendi una donna, trattala male» ai tempi non era così politicamente scorretto. Tanto più che alla fine della canzone, peraltro bellissima, a vincere era sempre lei. Perché «senza l’amore un uomo che cos’è?». Eravamo nell’era dei cantautori. Ora è il tempo di rapper e trapper. Un invito a nozze per Marco Ferradini, che ridiscende in campo con un nuovo teorema: «Che pena fanno le parole». Inteso, il loro abuso. Recita così il testo del suo nuovo brano. Ma non ce l’ha solo con gli inflazionati emuli nostrani dei rapper neroamericani. Il romantico Ferradini punta dritto al cuore della questione: l’amore. «Oggi siamo afflitti dalle iperboli, la parola è usata come se si dovesse sempre vendere o piazzare qualcosa. E così è svilita e mercificata, ancor peggio tradita. Mentre invece nell’amore basta uno sguardo, un sospiro». Le parole s’intitola appunto il suo nuovo singolo, con la produzione artistica di Antonio Chindamo (Auditoria Records con Cello Label). Un ispirato e raffinato duetto con la figlia Charlotte. È il primo assaggio del nuovo album che uscirà nella seconda metà di settembre dopo cinque anni di silenzio (nel 2014 aveva pubblicato il singolo Attimi, nel cui video appariva la figlia, e Due splendidi papà in duetto con Gianni Bella).
«Mio padre ha scritto di amore, ma la canzone ha anche un significato sociale in questa epoca in cui, soprattutto con i social, c’è un vacuo proliferare di parole. In musica questo avviene nel rap e nella trap. Alla fine non rimane in testa niente, nessuna melodia. Il rap a volte mi sembra un esercizio fisico di articolazione verbale». All’anagrafe, Charlotte, è il suo secondo nome. Ma è quello d’arte. Con cui firmerà il suo album d’esordio da cantautrice, in autunno. Un assaggio della sua sopraffina vocalità, da autentica figlia d'arte, l’ha già dato a inizio anno con il singolo L’arcobaleno, testi e musica suoi dopo la collaborazione con Bungaro nel brano Marta Rossa (Marta è il suo primo nome) che le aveva fruttato la vittoria nel 2012 al Premio Bianca D’Aponte.
Un anno speciale per i Ferradini, proprio quando le loro rispettive età sembrano evocare una congiunzione astrale o un segno del destino. L’uomo di Teorema torna infatti in grande spolvero a 70 anni (il prossimo 28 luglio) “doppiando” Charlotte, la cui età fu per sempre rivelata, appena nata, in Faccia d’angelo: «Per te che nel duemila avrai solo sedici anni e parlerai la lingua dei robot». Nell’era digitale Charlotte studia invece al conservatorio “Verdi” di Milano: piano pop. «Una sezione aperta solo due anni fa, proprio quando ho cominciato io. Ci sono entrata per una scommessa: mancavano dieci giorni alle prove di ammissione, ho tentato e mi hanno presa. Ho appena finito il secondo dei tre anni. Inoltre insegno canto nella scuola di Red Canzian, Artskool».
Anche papà aveva studiato canto da ragazzo, lirica. «Ma solo per quattro mesi, poi ho smesso perché i vocalizzi mi distruggevano la gola. Io venivo dalla Brianza e con l’aria tossica di Milano avevo sempre la faringite». A farlo cantare ci hanno poi pensato i jingle pubblicitari, le sigle dei cartoni animati e i 4+4 di Nora Orlandi, facendo decollare a 21 anni la sua carriera da corista. Al Castello di Carimate a cavallo tra gli anni 70 e 80 andavano quasi tutti i cantautori a registrare, da De André a Dalla. «Grazie al nostro comune produttore Alessandro Colombini cantai nei cori per Lucio e lui poi venne a suonare il sax alto in Schiavo senza catene, l’album di Teorema dell’81. Era un periodo meraviglioso, si collaborava e si cresceva. Si produceva e si suonava grande musica ai tempi della Rca di Ennio Melis. Io del cantautorato, dopo il debutto a Sanremo nel ’78 con Quando Teresa verrà e il successivo album, ho vissuto più che altro la coda. I discografici ti facevano crescere, ti aspettavano. E ti finanziavano. Oggi, se non vendi, ti bruci già al primo disco».
Interviene Charlotte: «Ora bisogna stare simpatici alle persone che contano, è tutto molto public relation e il mercato è dettato dalle mode. Mio padre invece ha potuto pubblicare le sue canzoni d’amore anche in un momento in cui si cantava di politica. Oggi ti senti dire: adesso va questo stile. Ma non perché piace davvero di più, è solo perché viene passato in radio. E la gente beve quello che va in radio. Ma dalle grandi emittenti è impossibile farsi trasmettere se non hai i soldi o se non hai il produttore nel giro giusto». «In Italia non c’è vera libertà – incalza Marco –, gli spazi sono tutti delle multinazionali della discografia. Chi vuol fare musica deve passare da loro». Ma la sfida chiama. E il loro autunno caldo è a un passo: prima il padre, poi la figlia (ancora senza titolo).
S’intitolerà invece L’uva e il vino l’album di Ferradini senior. Undici brani inediti, in digitale e in cd. «Verrà stampato anche in vinile e ci metterò due fotografie, una di me in bianco e nero scattata a Londra nel ’72, capellone e un po’ hippy; sul retro una foto di oggi, a sottolineare la maturazione. Appunto, l’uva e il vino. Che è anche il titolo di uno dei brani, riprendendo un po’ le tematiche di Teorema sul rapporto uomo-donna». Saranno tre i duetti con Charlotte. «In Pane parliamo di emigrazione, per constatare che chi è nato in Occidente, nella parte fortunata del mondo, può realizzare ciò che vuole solo per puro caso. Per diritto di nascita. In Solamente uniti siamo, invece, un uomo incontra una donna di un’altra regione del mondo. E proprio nella diversità che li unisce starà la loro forza».
Quindi, da solista, il brano La 500 e l’astronave contro la violenza sulle donne: «La testa di un uomo è come una vecchia 500, ha tre comandi; quella della donna è complessa e ricca come il display di un’astronave». Poi c’è Via Padova, «la via di Milano in cui abitavo prima di tornare in Brianza: una canzone d’amore imperniata sugli anni 80, molto americana, da viaggio, canzone solare e immaginifica». E l’evocativa Lombardia, una citazione. «È intitolata come quella del mio amico Herbert Pagani che nel ’65 pubblicò la versione italiana di Le plat pays di Jacques Brel: descrive i cieli non limpidi tipici nostri». E proprio un omaggio a Pagani era stato nel 2012 l’ultimo cd (doppio) di Ferradini, La mia generazione, in collaborazione con altri colleghi, da Ron a Concato, da Finardi a Fortis, da Andrea Mirò a Mauro Ermanno Giovanardi.
«Come sarebbe attuale Herbert Pagani oggi, soprattutto con quel suo spettacolo Megalopolis che presentò a Parigi al Bataclan. Io sono sempre stato in sintonia col suo sentire. Se manca il contatto con la natura l’uomo si imbruttisce e si perde. Le frequenze del verde ci stabilizzano. Non a caso il nostro concept album Schiavo senza catene fu scritto a quattro mani in montagna in un weekend. Abbiamo bisogno di bellezza, da vedere e sentire. Oggi non è così, purtroppo. E la musica che ci circonda ne è la prova». Già, megalopoli. Artificiali omologazioni urbane, coacervi antropici e musica fabbricata in serie. Intanto un altro “teorema”, tutt’altro che peregrino, Ferradini lo enuncia sorridendo, ma in fondo credendoci davvero: «Oggi non si fanno più figli perché non ci sono più belle canzoni. Oggi si canta solo il disagio, anche perché i giovani delle metropoli non vedono la bellezza attorno a loro».
«E poi c’è una competizione esasperata, a 16 anni hai già l’angoscia di cosa fare da grande – riflette Charlotte –. Io ho allievi di canto a cui vengono attacchi di panico solo per una prova. Si è bombardati di aspettative. Ovvio poi che queste ossessioni le ritrovi anche nelle canzoni. Con rapper e trapper che dicono: io sono bravo, io ce la faccio, io ho fatto i soldi. Criticano il pop di un tempo che parlava solo di amore, ma loro invece parlano solo di gare a chi è più forte. Di soldi come status e di donne da esibire come trofei». Altro che prendere una donna e trattarla male. Servono nuovi teoremi a cui affidare le future traiettorie della musica (e non solo) per emanciparsi dalle nuove schiavitù. Senza catene, ma più subdole.