Una donna regge una bandiera dell'Istria e un Tricolore durante la cerimonia del Giorno del Ricordo alla Foiba di Basovizza, a Trieste 10 febbraio 2020 - Ansa/Andrea Lasorte
“Nell’attuale contesto europeo l’equiparazione fra i totalitarismi del Novecento (fascismo e comunismo) è un fatto ormai accettato politicamente, nonostante le tante proteste degli studiosi”, lamenta Eric Gobetti, classe 1973, nell’introduzione del suo libro E allora le foibe?, uscito per Laterza a ridosso del Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’esodo degli italiani da Istria, Fiume e Dalmazia. Incredibilmente, Gobetti non sembra far propria la recente Risoluzione del Parlamento europeo contro ogni dittatura, come ci si aspetterebbe da un euro-cittadino del XXI secolo, che per di più si definisce uno storico: l’Europa che guarda al futuro rifiuta ugualmente tutte le voragini di disumana violenza nere o rosse che siano, e questo non pare convincerlo. Come pure il fatto che dal 2004 il Parlamento abbia istituito il Giorno del Ricordo, per rompere un silenzio durato 60 anni sulla tragedia dei giuliano dalmati, i soli italiani che alla fine della seconda guerra mondiale non conobbero la Liberazione, ma piombarono direttamente sotto una nuova dittatura uguale e contraria al fascismo, il comunismo di Tito. “Questo libro nasce da un’urgenza”, dichiara dall’inizio Gobetti, quella di “fermare il meccanismo che si è messo in moto”, che farebbe del Giorno del Ricordo “una data memoriale fascista”. L’intento dunque sarebbe strappare la celebrazione ai gruppetti di ventenni fasciovestiti che oggettivamente la cavalcano dimenticando che la tragedia scaturì proprio da una guerra di aggressione voluta dal duce al fianco dei nazisti: intento lodevole, se non fosse che invece Gobetti “contestualizza” ogni atrocità jugoslava, finendo suo malgrado per giustificare l’ingiustificabile e ottenendo così l’effetto opposto di dimostrare che la memoria non è ancora condivisa.
La sua opera – assicura – è scritta per chi non sa nulla delle Foibe e dell’esodo, ma ai protagonisti, coloro che hanno visto e vissuto sulla propria pelle, non dedica una sola riga. E’ vero che storia e memoria sono cose diverse, ma l’intensa memorialistica dei testimoni è esclusa del tutto dalla sua “Bibliografia ragionata” (così la chiama): non un panorama della vasta produzione esistente, ma la scarna lista di autori in gran parte orientati. Il resto, dice, è “di scarso valore storiografico” o scritto “in ottica semplicisticamente vittimista”. Tra i “vittimisti” c’è persino Graziano Udovisi, l’unico infoibato uscito vivo dalla voragine in cui era stato gettato e in grado, molti anni dopo, di descrivere l’orrore vissuto.
Non nega l’evidenza, Gobetti, le Foibe esistono ed esistono i cadaveri ancora oggi sul fondo, come esistono i rastrellamenti, i processi farsa, la schiavitù nei campi di lavoro forzato, il terrore portato dai partigiani di Tito nel cuore di una popolazione civile e quindi la fuga in massa di istriani, fiumani e dalmati dalle loro terre, ma tutto questo “contestualizza”, e quindi in soldoni giustifica.
Innanzitutto le Foibe. L’utilizzo del nome come simbolo dell’intera tragedia è “poco corretto”, evoca infatti “uno scenario di stragi condotte con metodi barbari”. Con un complottismo sconcertante, azzarda un confronto semantico con quello che invece ritiene un ossequio verso i nazisti: “In senso inverso – denuncia – si fa uso dell’espressione ‘camere a gas’ dando così l’impressione di una elevata tecnicizzazione”... Poco evolute le Foibe, tecnologico il gas. Le Foibe, ci spiega, non furono affatto “uno strumento di esecuzione” bensì un semplice “luogo di sepoltura”, tanto più che, sostiene Gobetti, di solito vi si era gettati già cadaveri. Le testimonianze che non collimano con la bizzarra teoria (i “cadaveri” erano uccisi un attimo prima, sull’orlo della foiba) sono “racconti macabri” non degni di fiducia. Nonostante i ricordi dei camion carichi di italiani vivi da infoibare, sussurrati ancora oggi dagli ultimi anziani che li videro partire; nonostante il racconto di Graziano Udovisi (legati con il filo di ferro, si sparava solo al primo della fila che trascinava giù gli altri); nonostante le testimonianze dei figli tuttora in vita, che da bambini andavano sotto le inferriate del carcere a gridare un disperato affetto al papà (fino al giorno in cui non mi rispose più…); e nonostante le recentissime scoperte di fosse comuni con le salme di decine di migliaia di oppositori al regime di Tito (in gran parte cittadini croati e sloveni): lungo il margine centinaia di munizioni, a riprova dell’esecuzione sul posto.
La prima mattanza di italiani avviene dopo l’8 settembre del ’43, ma per Gobetti “lo scopo sembra quello di fare ordine”, “giudicare i colpevoli” in maniera civile. In realtà l’obiettivo di Tito è eliminare qualsiasi ostacolo vero o presunto all’occupazione jugoslava della regione italiana, dal bottegaio al sacerdote, dal medico al maestro: è caccia grossa, e a dirlo chiaro è il rapporto stilato il 6 novembre del ’43 dal capitano Zvonko Babic-Zulija per il Centro informativo per il Litorale croato e l’Istria, organo del movimento di liberazione croato. Strano che lo storico Gobetti non lo conosca. Non solo: delle 217 salme recuperate nel ’43 dai Vigili del Fuoco (la gran parte giace ancora là sotto) “circa la metà erano militari”. Premesso che se ciò fosse vero non giustificherebbe nulla, le identità accertate furono 134: 116 civili e 18 soldati.
A guerra finita, sottolinea poi, nelle foibe morì solo “una piccola parte delle vittime” perché, assicura candidamente Gobetti, “la maggior parte dei decessi avviene nei campi di internamento”, dove si muore, sì, ma “non in seguito alle condanne, bensì per le condizioni di vita”: sono lager comunisti “paragonabili e addirittura peggiori ai campi di internamento fascisti”. Un’accusa, finalmente? No: pare che morire di stenti sia più civile rispetto a “quell’immaginario di violenza primitiva veicolato dal termine ‘foibe’”. Inoltre “le violenze commesse dai liberatori alla fine della guerra”, cioè in tempo di pace, sarebbero un fenomeno “moderno”, perché avvenne “in tutta Europa”. Così fan tutti, insomma...
In realtà dimentica che nessun altro Paese vincitore nel ’45 ha perseguitato il popolo che aveva liberato. Tito doveva pur “instaurare un nuovo regime di stampo comunista” – contestualizza Gobetti –, dunque a rendere “particolarmente alto il numero di vittime delle violenze partigiane alla fine della guerra” è la “volontà di repressione preventiva degli eventuali oppositori”, praticamente una scelta necessaria. Una ferocia che – ricorda Gobetti – colpì in Istria gli italiani ma all’interno croati e sloveni con centinaia di migliaia di morti. Una strage democratica, insomma, non una pulizia anti italiana. E a cadere per primi sarebbero i collaborazionisti dei nazisti, “ad esempio i 97 membri della guardia di finanza arrestati all’inizio di maggio 1945”. Possibile che non sappia che proprio i finanzieri pochi giorni prima avevano partecipato all’insurrezione del CLN di Trieste contro i tedeschi?
Anche gli espropri ben poco proletari (ai danni di chiunque, dal contadino al pescatore, cui il regime sottrae pure la barca) sarebbero “un percorso di modernizzazione”. Per questo Gobetti trova strano che la povertà indotta dal comunismo, la collettivizzazione forzata e il “lavoro volontario” inducano l’intera popolazione alla fuga verso le regioni rimaste italiane. L’esodo di centinaia di migliaia di persone, che Gobetti chiama “trasferimento” volontario “scelto liberamente” per non dover “imparare una nuova lingua” e “una nuova socialità”, non fu per lui una necessità ma “una specie di psicosi collettiva”.
E’ pur vero che gli italiani venivano “processati” e “giustiziati” (ovviamente processi farsa, non solo a persone accusate a torto o a ragione di fascismo, ma soprattutto alla popolazione inerme e addirittura agli antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale), ma in fondo “nello stesso contesto va ricordato pure il processo di Norimberga”: il processo istituzionale ai criminali nazisti paragonato alle esecuzioni sommarie di civili innocenti...
Molte cose stanno accadendo negli ultimi mesi sulla via della riconciliazione, le autorità di Lubiana e di Zagabria riportano alla luce le centinaia di migliaia di vittime del terrore di Tito, e recenti scavi condotti assieme alla nostra nazione hanno permesso di dare sepoltura ai primi italiani recuperati: non è tempo di passi indietro. Gobetti, che scrive di Foibe, non nega i suoi viaggi della memoria sulla tomba e sui luoghi di Tito, fotografato col pugno alzato nel gesto delle brigate jugoslave. Cosa diremmo se un saggio sulla Resistenza fosse scritto da uno storico che per anni si rechi a Predappio e lì faccia il saluto romano?