Luigi Ghirri, "Rimini 1977". L'opera è esposta a Reggio Emilia nella mostra “In scala diversa” - Archivio Eredi Luigi Ghirri
Non aveva neppure 50 anni Luigi Ghirri quando scompare all’improvviso nel 1992 a causa di un infarto. Ma in due decenni soltanto ha tracciato un corso inedito della fotografia attraverso un costante riesame del suo codice, uno smontaggio e rimontaggio dei meccanismi linguistici dell’immagine che lo avvicina, specie nella prima metà della sua carriera, agli artisti concettuali e che poi si proietta sulla parte più celebre e apparentemente più accessibile del suo lavoro, quella sul paesaggio.
A Reggio Emilia, in occasione del trentennale della morte, la mostra “In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in Miniatura e nuove prospettive” (Palazzo dei Musei, fino all’8 gennaio), a cura di Joan Fontcuberta, Ilaria Campioli e Matteo Guidi, riunisce per la prima volta tutte le fotografie realizzate all’interno dell’Italia in Miniatura di Rimini, un parco tematico progettato da Ivo Rambaldi e inaugurato nel 1970, dove la sagoma dello Stivale racchiude le riproduzioni di monumenti e località.
È un vero snodo nel lavoro di Luigi Ghirri. Vi troviamo condensati tutti i temi da lui affrontati, a partire dal “regno dell’analogo”, dove la concretezza del reale è data proprio dalla moltiplicazione nella sua immagine, ma anche i futuri sviluppi. «Ghirri presenta la serie In scala per la prima volta nel 1979 ma sappiamo che è tornato nel parco più volte negli anni seguenti – spiega Ilaria Campioli, curatrice della sezione di fotografia di Palazzo dei Musei –. L’Italia in Miniatura gli appare come un banco di prova dove testare la sua idea di fotografia e un luogo di sintesi. Evidentemente era un luogo illuminante. Nei testi è molto chiaro: il parco è un atlante tridimensionale. Allo stesso tempo emerge in queste immagini un tema chiave del Ghirri futuro come quello della soglia. Ghirri osserva che il parco è così esplicitamente finto da essere il solo strumento capace di richiamare l’esperienza del reale. È come se riconoscesse in questi modelli il dispositivo della fotografia, che è a sua volta una miniaturizzazione fisica del mondo. Fontcuberta sostiene che al parco Luigi Ghirri stia fotografando la fotografia».
Ma è anche da qui che si deve guardare il Ghirri più noto di Viaggio in Italia. Ghirri sembra sia dovuto arrivare al paesaggio, da cui solitamente un fotografo inizia, mettendo prima a registro il problema della fotografia. Nel parco trova il momento in cui paesaggio e fotografia coincidono, e questo gli consente di affrontare con piena libertà il campo aperto. «E lo fa con un nuovo approccio. L’Italia di questo parco è quella dei grandi atlanti fotografici Alinari: l’Italia del monumento, dell’eccezionalità isolata dal contesto. È una geografia per aneddoti. Quando esce, Ghirri fotografa quello che sta nel mezzo. Si vede la libertà acquisita nel fatto che da San Pietro in miniatura si sposta a luoghi che nessuno ha mai fotografato. Per Ghirri il paesaggio non era un’esperienza di bellezza, ma di appartenenza. E tutt’altro che malinconica, come spesso si pensa. È il cambio di sguardo che coinvolge una generazione di fotografi che non a caso coinvolti da lui in progetti realizzati in gruppo in una condivisione di intenti: Barbieri, Chiaramonte, Guidi, Jodice, Basilico…».
Nell’indice dei nomi di Niente di antico sotto il sole (Quodlibet), che raccoglie i suoi testi, Bob Dylan è il nome più citato dopo gli amatissimi fotografi americani. «Spesso si sottolinea il legame di Ghirri con gli scrittori, a partire da Gianni Celati, e la letteratura. Ma io credo che fosse più forte quello con la musica. In un’intervista con Lucio Dalla dice che le fotografie sono come le canzoni: piccole e fragili. Nel suo identikit fotografico si vede un grande scaffale pieno di lp. Ma è un tema ancora inesplorato. Io credo che il rapporto con la musica sia stato in avere, mentre in quello con la scrittura in dare. Penso ad esempio all’idea, così dylaniana, della pianura e del viaggio».
La mostra presenta stampe vintage incorniciate alle pareti e nelle vetrine gli scatti provenienti dai negativi dell’archivio custodito nella Biblioteca Panizzi: «Sono oltre150mila negativi. Ghirri ha fotografato moltissimo, specie per quegli anni. In accordo con gli eredi stiamo progettando mostre che esplorano l’archivio con uno sguardo diverso, considerandolo come qualcosa di vivo. Per entrare nei suoi processi creativi ». Una pratica per altro rispettosa del metodo di Ghirri che non ha mai eseguito ritratti ma ha preferito rappresentare le persone attraverso le cose sedimentate negli spazi in cui vivono: «Gli ultimi lavori, come quelli dedicati a Morandi, sono tutti in interno. Sembrano aprire vie nuove: dove sarebbe andato? Non si considerava il fotografo della grande opera. Non avrebbe mai voluto essere trasformato in un simulacro. Le sue immagini oggi sono imitate, copiate. La rete pullula di “immagini alla Ghirri”. Questo è un modo per spezzare un processo in cui non si sarebbe mai riconosciuto ».
Eppure all’estero Ghirri non è ancora noto in modo universale: «Francia a parte, Ghirri in generale fuori dall’Italia è conosciuto troppo poco e in modo incompleto. Molti fotografi stranieri che arrivano qui a Reggio Emilia per Fotografia Europea lo scoprono quasi per la prima volta. Ed è incredibile che il MoMA non gli abbia mai dedicato una mostra. È un sintomo della difficoltà storica di inquadrare Ghirri».
Ma a 30 anni dalla morte è impossibile sottovalutarne l’eredità: «Quando inizia a lavorare c’erano due modi di fare fotografia: il fotogiornalismo e la fotografia artistica in bianco e nero. Ghirri inaugura una terza via, e oggi molti fotografi vi sono dentro. Senza l’immediatezza e la facilità di muoversi in simbiosi con la scrittura e la musica, oggi non avremmo i giovani che lavorano con gli scienziati o usano le immagini che arrivano dai telescopi… Non è un caso che molti all’inizio, anche colleghi importanti, non lo capivano. Non era scontato. È stato in grado di creare una strada che non sta neppure in mezzo, ma oltre. Con la sua massa di immagini ha aperto un continente nuovo per la fotografia. Forse a Ghirri sta stretta la definizione di fotografo: prima ancora è un artista che usa l’immagine».