Lo scrittore albanese Fatos Lubonja - -
Sono trascorsi oltre trent’anni dalla fine della dittatura comunista ma l’Albania non ha ancora avuto la sua catarsi. Ha imboccato la strada dell’Europa lasciandosi alle spalle gli orrori del regime di Enver Hoxha senza fare i conti con il proprio passato. È quanto sostiene Fatos Lubonja, uno degli intellettuali albanesi di maggior spicco, che all’epoca pagò la sua dissidenza con diciassette anni di prigionia nei gulag del suo Paese. Scrittore e giornalista pluripremiato e apprezzato anche in Italia (alcuni anni fa si aggiudicò, tra l’altro, il premio Moravia), da oltre due decenni vive stabilmente in Toscana ma continua a frequentare il suo Paese analizzando con lucidità sia gli orrori del passato che le contraddizioni della nuova democrazia albanese. Il suo profilo ricorda molto da vicino quello di altri intellettuali incarcerati dai regimi comunisti, come il ceco Vaclav Havel e l’ungherese Arpad Goncz, che divennero poi presidenti dei rispettivi Paesi. Lubonja invece è sempre stato una voce critica e indipendente del mondo culturale e politico albanese, un intellettuale da sempre impegnato nella denuncia di qualsiasi abuso di potere e in aperta polemica con alcuni suoi illustri connazionali - come Ismail Kadare – colpevoli a suo dire di aver sostenuto indirettamente la dittatura.
Suo padre, Todi Lubonja, fu uno dei più stretti collaboratori del dittatore Enver Hoxha e negli anni ‘60 diresse la televisione nazionale albanese finché non cadde in disgrazia per aver autorizzato la messa in onda di canzoni italiane e straniere, come quelle dei Beatles, che a quel tempo non era permesso ascoltare. Nel 1974 finì sotto processo in una delle purghe di quegli anni con l’accusa di essere un nemico del popolo che aveva cercato di introdurre modelli culturali borghesi. Fu espulso dal partito, licenziato e mandato in prigione. Di lì a poco anche Fatos Lubonja, allora 23enne studente di fisica all’università di Tirana, venne incarcerato perché la polizia trovò alcuni suoi racconti che criticavano la dittatura. Il contenuto di quegli scritti giovanili gli costò l’accusa di propaganda contro il regime, cui seguì una condanna a sette anni di lavori forzati da scontare nella prigione di Spaç, un luogo terribile in cui i prigionieri erano costretti a lavorare nelle miniere di rame. Ma sarebbe stato soltanto l’inizio del suo calvario. «In carcere fu montata un’accusa contro un gruppo di prigionieri accusati di aver ordito un complotto revisionista. Due di loro furono condannati a morte dopo un processo a porte chiuse, io venni condannato a ulteriori diciotto anni che ho scontato in parte a Burrel, il più duro tra i carceri di massima sicurezza».
Il "taccuino" di Lubonja fatto di cartine da sigaretta - Riccardo Michelucci
Fatos Lubonja sarebbe tornato libero soltanto dopo la caduta del regime, nel 1991, ormai quarantenne. La drammatica esperienza della prigionia, che ha segnato la prima parte della sua vita, è un tema che ricorre inevitabilmente in tutta la sua opera. In un nuovo libro tradotto finora soltanto in inglese, Like a Prisoner: Stories of Endurance (Istros Books), racconta la vita quotidiana nei gulag albanesi attraverso le storie di undici compagni di reclusione. Ogni capitolo prende il nome da uno di essi. «La vista di quel deprecabile vortice umano è rimasta immutata nella mia memoria del primo giorno», scrive l’autore, che nel libro raramente compare al centro della scena. A Spaç c’erano celle di isolamento alte due metri e larghe un metro e mezzo. Non erano ammessi giornali, né libri, né radio ed erano proibiti gli specchi, per impedire che i detenuti potessero farsi del male o usare i pezzi di vetro come armi. Ma anche perché dovevano essere privati di qualsiasi contatto con la realtà. Lubonja racconta le diverse strategie usate dai prigionieri per sopravvivere a «quel calderone creato per distruggere le anime» nel tentativo di metabolizzare una volta per tutte un trauma che ha segnato per sempre la sua esistenza.
Gli intellettuali e i religiosi furono le prime vittime del comunismo albanese. Vennero arrestati, torturati e uccisi a centinaia in quegli anni terribili in cui soltanto la solidarietà tra i detenuti poteva lasciare spazio a qualche bagliore di speranza. Nell’inferno di Burrel Lubonja incontrò Zef Simoni, uno dei tanti preti cattolici perseguitati che in seguito sarebbe diventato vescovo ausiliare di Scutari. Tra loro nacque un’amicizia profonda e duratura. «Provengo da una famiglia profondamente atea, mi definisco un heideggeriano e ritengo di avere un rapporto con la religione cattolica simile a quello che aveva Gianni Vattimo», prosegue Lubonja. «Zef avrebbe voluto battezzarmi ma io ho sempre rifiutato. Nei nostri incontri mi ha fatto però un catechismo tutto suo. Non è riuscito a convertirmi ma posso dire di aver imparato molto da lui. Per me padre Zef è come un santo. Un giorno alla mensa della prigione fu schiaffeggiato da un altro detenuto davanti a tutti. In un contesto come quello era un affronto indicibile e pensammo che da allora si sarebbe tenuto alla larga da quell’uomo. Invece lo perdonò subito. Il giorno dopo erano di nuovo seduti a mangiare uno accanto all’altro».
Sempre a Burrel, nel corso degli ultimi anni della sua detenzione, Lubonja trovò la forza per scrivere un romanzo sulle assurdità del regime usando un centinaio di cartine di sigarette e la punta di una matita affilata. «I comunisti albanesi avevano capito di aver sbagliato tutto già negli anni ‘50 ma non vollero ammettere i loro errori e per nasconderli commisero un crimine dopo l’altro. Il mio romanzo nasceva da un’interpretazione personale di Sofocle e raccontava la storia di una figura assetata di potere, un nuovo Edipo calato nei panni del tiranno e ispirato al dittatore Enver Hoxha». Nascose a lungo il piccolo manoscritto nel dorso di un dizionario e quando tornò in libertà lo fece pubblicare col titolo L’ultimo massacro. Dopo la scarcerazione Lubonja ha iniziato anche a impegnarsi nella difesa dei diritti umani, divenendo segretario generale del Comitato Helsinki e del Forum albanese per i diritti dell’uomo. Ha diretto riviste di politica e di critica letteraria ed è rimasto fedele al suo ruolo di intellettuale critico nei confronti del potere. Oltre tre decenni dopo la caduta del regime ritiene che il suo Paese non sia ancora riuscito a confrontarsi con la terribile eredità del periodo comunista. «Fare i conti col passato significa innanzitutto cercare di non ripeterlo ma molti aspetti del presente in Albania conservano un’eco inquietante del passato», conclude. «Parafrasando Kant potremmo dire che il regime usava il popolo come mezzo e non come fine. Adesso non si incarcerano più gli oppositori veri o presunti ma abbiamo una nomenklatura completamente isolata dal popolo che monopolizza l’economia e ha eliminato quasi del tutto l’opposizione».
Conclude Lubonja: «In quello che un tempo era il più isolato e repressivo tra i Paesi comunisti d’Europa il governo controlla ancora le onde radio e non garantisce piena libertà alle tv e alle radio private».