venerdì 27 dicembre 2019
La biografia di Gasparri su Desiderio, l’ultimo sovrano del popolo che dominò la Penisola per due secoli, apre un nuovo squarcio di luce su quell’epoca ancora troppo spesso liquidata come “secoli bui”
La “Croce di Desiderio” del museo di Santa Giulia (Brescia), in realtà rifacimento del IX secolo

La “Croce di Desiderio” del museo di Santa Giulia (Brescia), in realtà rifacimento del IX secolo - Wikicommons

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Prima o poi dovremo farcene una ragione: siamo come tutti gli altri. Gli italiani non sono gli eredi diretti di una qualche gloriosa antichità, ma si sono formati come popolo nell’Alto Medioevo. Proprio come tutte le altre nazioni europee. Aveva insomma ragione Machiavelli, che «nelle sue Istorie Fiorentine aveva sostenuto che i Longobardi, quando il loro regno fu conquistato dai Franchi di Carlo Magno nel 774, ormai di straniero avevano solo il nome; il loro in realtà era stato un regno italiano, e la sua caduta in mano ai Franchi aveva inaugurato la lunghissima serie di invasioni straniere che avevano flagellato la penisola italiana ». È questa una delle osservazioni tra le quali Stefano Gasparri inquadra la sua biografia di Desiderio. L’ultimo re longobardo (Salerno, pagine 254, euro 19,00): osservazioni solo a prima vista in controtendenza con il comune sentire storico, e che in realtà non fanno che sedimentare quanto acquisito da un campo di studi, quello sull’Alto Medioevo italiano, che negli ultimi anni ha rimesso in discussione, e spesso ribaltato, una visione consolidata del nostro passato. Nelle scuole tedesche, francesi o inglesi l’Alto Medioevo è studiato come un passaggio cardine delle rispettive storie patrie; in quelle italiane, è sorvolato svogliatamente, nella consolidatissima tradizione dei “secoli bui”. Nella nostra autorappresentazione nazionale, ci compiacciamo di essere eredi diretti della grande età classica, romana, poi “rinata” prima civilmente al tempo dei Comuni ed esplosa culturalmente con il Rinascimento. In mezzo, appunto, il buio. Se un fascio di luce si accende, è al massimo per illuminare una figura come quella di Carlo Magno che a rigore, in una prospettiva nazionale (che non vuol dire nazionalistica), altro non è che un invasore straniero. Si vede bene qui come certe parole siano già di per sé inadeguate a raccontare correttamente il nostro passato: il rischio è sempre quello di proiettare a ritroso categorie specificamente moderne, come quelle di nazione o di etnia, e di precludersi così una reale comprensione del tempo che fu. Quello longobardo, poi, nel senso storico comune continua a giacere sotto una spessa coltre di oblio, sepolta da una damnatio memoriae suggellata dei celebri versi dell’Adelchi manzoniano: «Dagli atri muscosi, dai fori cadenti...».

Gasparri, docente di Storia dell’Alto Medioevo a Ca’ Foscari, prende di petto la questione: «La grande narrazione della storia d’Italia non comprende i barbari nel suo seno. È fondata su Roma e sulla sua eredità. Anche il relativo interesse che i Longobardi e gli altri barbari talvolta riscuotono in questi ultimi anni va ricondotto pur sempre alla loro presunta estraneità all’Italia. Interessano infatti come esempio antico di migranti». La storiografia si è lasciata alle spalle da tempo una simile semplificazione, «ma di questa grande opera di revisione è filtrato abbastanza poco nel comune senso storico ». Già le stesse “invasioni” barbariche sono viste sempre meno come grandi movimenti di massa e sempre più come processi di progressiva infiltrazione e assimilazione, scaglionati lungo l’ampio arco di tempo che chiamiamo Tarda Antichità e Alto Medioevo, nel mondo grecoromano; e perfino il concetto di “popolo” – barbarico o meno che fosse – è stato messo in discussione, giacché al loro interno i vari gruppi che si accostavano, più o meno pacificamente, all’Impero erano tutto fuorché omogenei. Nei Longobardi che nel 568 entrarono in Italia c’era di tutto: Sassoni, Avari, Gepidi, perfino “Romani”, per lo più Bizantini, assorbiti durante la lunga permanenza del popolo a ridosso del Limes. Una volta giunta in Italia, poi, questa gente eterogenea si confuse rapidamente – superata la primissima fase dell’“invasione” – con la popolazione locale, tanto che presto il termine “longobardo” perse ogni connotazione “etnica” e passò a indicare semplicemente qualsiasi abitante del regno longobardo, cioè pressoché tutta l’Italia continentale. Ne rimanevano fuori solo Roma e le ultime roccaforti bizantine (Ravenna, Napoli, la Pentapoli adriatica...): i cui abitanti, indistintamente, erano chiamati “romani”. «I nomi dei popoli – spiega Gasparri – assumono un valore diverso nel corso del tempo. Non capirlo, e restare invece attaccati a delle etichette etniche viste come immobili nel tempo, significa sottrarre i popoli alla dinamica storica, trasformandoli in entità metastoriche: un’operazione, questa, della quale mi sembra giusto sottolineare la pericolosità».

Desiderio, l’ultimo re longobardo sconfitto assieme al figlio Adelchi nel 774 da Carlo Magno, era in altri termini molto più “italiano” che “barbaro”, a voler rimescolare le carte di quei nomi dei popoli. Di lui in realtà sappiamo poco, molto meno che dei suoi predecessori ricordati dalla capitale (e bellissima) Storia dei Longobardi di Paolo Diacono. Il più grande scrittore (non solo storico) dell’Italia longobarda, pur lavorando proprio negli anni del passaggio dal dominio longobardo a quello franco, preferì arrestare la sua narrazione all’apogeo del regno, con la morte di Liutprando (744). Così, la biografia di Gasparri assume a tratti il passo del poliziesco, andando a caccia di indizi sulla reale vita di Desiderio tra le fonti a disposizione, scarsissime e per di più quasi tutte di parte avversa al re, cioè franche o pontificie. Altri indizi Gasparri li desume da documenti in cui il re è citato indirettamente, o a lui coevi. Quello che ne emerge è il ritratto di una figura complessa, dinamica, volitiva, fondatore di monasteri eppure in perenne conflitto con il Papa, politico abile ma fragile militarmente. «Desiderio – conclude Gasparri – rimane un re bifronte, la cui essenza profonda, nonostante tutto, è in gran parte destinata a sfuggirci».

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