L'attore palermitano Luigi Lo Cascio
Non fa più parte della generazione dei giovani attori italiani, ma non è ancora entrato nella categoria veterani, anche perché possiede volto e physique du rôle dell’uomo “senza tempo”. Però Luigi Lo Cascio, palermitano, classe 1967, appartiene - con gli ex compagni di banco, Pierfrancesco Favino e Fabrizio Gifuni - all’ultima nidiata di talenti che ha preso il volo dopo essersi formata con il maestro Orazio Costa, all’Accademia d’arte drammatica. È un’estate molto calda sul fronte professionale quella che sta vivendo e che lo vede protagonista al cinema nei panni di Totuccio Contorno ne Il traditore, di Marco Bellocchio, che gli è appena valso un Nastro d’Argento, e in quelli del criptico Cesare il passeur protagonista de Il Mangiatore di pietre di Nicola Bellucci, appena arrivato nelle sale. E poi, nell’anno del centenario della nascita di Primo Levi gli dà voce in teatro ne Il sistema periodico ed è in tour permanente «da solo o con una jazz-band» con il suo primo romanzo, Ogni ricordo un fiore (Feltrinelli).
Una gran mole di lavoro ma immaginiamo anche altrettanto senso di appagamento per ciò che fa.
Io vivo il mio lavoro con un senso di profonda gratitudine per tutte le cose buone che mi sono capitate in questi anni. Per questa concatenazione di eventi positivi, mia madre possedendo il dono della fede ringrazia Dio. Anch’io mi rivolgo spesso al Cielo, più particolarmente a quelle persone care che non ci sono più ma di cui avverto sempre l’affettuosa vicinanza.
Ma già fin dalla sua prima prova, il Peppino Impastato de "I cento passi" è emerso un talento attoriale che va oltre la “dea bendata”.
Il fatto di avere interpretato Peppino Impastato non mi fa certamente un “esperto” di storia di Cosa Nostra, né tanto meno un fine interprete delle cose di Mafia. Ma sono felicissimo di avere dato corpo e voce a un uomo così straordinario come Peppino. Fare quel film è stato forse l’evento più straordinario e fortunoso che mi sia capitato, in grado di cambiare il mio percorso artistico ed esistenziale. Senza I cento passi e la notorietà che mi ha dato, probabilmente non avrei mai potuto fare ed essere tutto quello che sono oggi...
Ma se non avesse fatto l’attore quale sarebbe stato il suo “piano b”?
Volevo fare il medico, ero iscritto al secondo anno di Medicina. Ma grazie allo sport, ho incontrato la mia vera vocazione. Con un gruppo di amici del Cus Palermo per seguire i Mondiali d’atletica, a Stoccarda o a Helsinki, mettemmo su una compagnia di teatro di strada. Ci chiamavamo “Le ascelle” e con quello che raccoglievamo nei nostri spettacolini improvvisati ci finanziavamo i viaggi.
Una curiosità, qual era il repertorio de “Le Ascelle”?
Vario e assai comico. Il “nonsense” di Cochi e Renato che mi avevano stregato alla tv da bambino, così come le canzoni di Enzo Jannacci. Chi mi conosce solo per i miei ruoli impegnati non sa forse che ho iniziato con il cabaret e anche all’Accademia i primi testi che portai erano quelli di Petrolini o uno Shakespeare comico tratto dal Racconto d’inverno. La frustrazione dell’attore che vorrebbe cambiare registro ma non gli viene data la possibilità, io per fortuna non credo di averla mai provata.
Ora si è tolto anche lo sfizio di scrivere un romanzo.
In Ogni ricordo un fiore c’è dentro tutto quello che due anni fa avevo letto, vissuto e “rubato” ascoltando storie o racconti di altri, tipo mio fratello che si trova in fortissima difficoltà in un fiume del Madascar... Il tutto è finito nella testa di Paride Bruno, un uomo che ambisce a diventare scrittore ma che soffre di una malattia che ho chiamato “Incompiutezza Cronica Multifattoriale” (ICM), e credo sia una patologia piuttosto diffusa. Paride ha accumulato 230 incipit e durante un viaggio in treno che si impone, da Palermo a Roma, se li rilegge tutti nella speranza di poterne sviluppare almeno uno così da riuscire a pubblicare finalmente il suo primo romanzo.
Anche "Il mangiatore di pietre" è tratto da un romanzo, il thriller di Davide Longo.
È una storia che ci pone dinanzi ai due aspetti della questione dominante adesso, il problema delle migrazioni: il dramma delle persone che fuggono dalla fame e dalla guerra e che cercano soccorso nel nostro Occidente privilegiato; e l’attività criminale di coloro che approfittano e speculano sulle disgrazie di questi esseri umani in estrema difficoltà. Cesare, il personaggio che interpreto, il passeur è un passatore, un uomo che conoscendo i sentieri di montagna più segreti e impervi, permette ai migranti in clandestinità di sconfinare dall’Italia alla Francia. All’inizio lo fa solo per soldi ma poi il suo interesse diventa essenzialmente umano. Quasi una missione. E sarebbe bello pensare che questi “sconfinamenti” avvenissero solo per fini umanitari...
Quello spirito umanitario però lo scopre grazie al giovane Sergio, nel film il bravissimo Vincenzo Crea.
Vero, è l’intuizione giovanile che spinge Cesare a salvare quei migranti perché dice Sergio: «Se non lo facciamo noi chi lo fa?». Questo moto interiore, ha a che fare con le nostre radici culturali che affondano nel rispetto dei diritti umani e nello spirito dell’accoglienza. Sono principi che in quest’epoca sono stati dimenticati, e così capita che si rimane insensibili dinanzi a quel bambino che è sbarcato sulle nostre coste con addosso soltanto la pagella cucita sulla maglia. Ricordiamoci sempre che quello è un nostro fratello ed è nostro dovere salvarlo dal male e dalla morte.
Sembra quasi che ci sia un filo che leghi i “sommersi e i salvati” di oggi con quelli del Primo Levi che lei porta in scena.
La sua lezione di chimico ne Il sistema periodico insegna che dove c’è la presunta purezza c’è anche la stasi e la morte, mentre è nell’impuro, nella mescolanza che risiede la vita. E in incipit di Se questo è un uomo Primo Levi scrive che in molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. E quando in un popolo prevale questo pensiero, è sempre possibile che tornino i lager.
Un messaggio tragicamente attuale.
Il dubbio atroce infatti è che tra venti-trent’anni, anche le nostre coscienze assopite si potrebbero risvegliare e provare quel senso di colpa lacerante di chi è stato complice di tante vite morte in mare solo perché private del nostro aiuto. Toccare il fondo della disumanità, a volte può servire a recuperare e mantenere un atteggiamento umanitario più forte.
Non bisogna mai smettere neppure di combattere la mafia. E un film come "Il traditore" è lì, sul grande schermo, a ricordarcelo.
Tommaso Buscetta e il Totuccio Contorno che interpreto, sono dei collaboratori di giustizia. Contorno è uno che ha deciso di vendicarsi anche “militarmente” di coloro che gli hanno sterminato la famiglia. Sono uomini costretti, come tutti i mafiosi, a vivere in clandestinità o a passare gran parte della loro vita in carcere. Una miseria umana che Peppino Impastato aveva colto e combattuto in quanto nato dentro a una famiglia mafiosa. Alla barbarie e alla devastazione, fino alla morte Peppino ha risposto scegliendo con coraggio dei modelli culturali alternativi: la musica, la radio, le letture forti, Pasolini, Majakovskij...
Pasolini diceva ai giovani che la salvezza sta proprio nel leggere e «in quell’esperienza speciale che è la cultura».
E allora in questo momento non siamo salvi. Girando, ascoltando, mi accorgo che si sta spegnendo proprio il desiderio di sapere. C’è in atto quasi un processo di ridicolizzazione verso colui che sa. Ci si accontenta di restare sempre in superficie, non c’è più il gusto e la passione dell’approfondimento, la voglia di verificare le fonti. Da Internet assumiamo verità quasi fossero oracolari. Mi fa impressione con quale aria di sufficienza, di questi tempi, le istituzioni considerino la scuola, l’università, misconoscendo totalmente il valore e l’importanza cruciale del sapere.
Lasciamoci con un “incipit” di speranza...
Quel bambino di di 11-12 anni che nel treno si presenta davanti a Paride Bruno con uno zaino pieno di libri da leggere, a cominciare dalla Bibbia. Ha un contrasto in corso con la sua insegnante di religione riguardo al libro della Genesi e si pone domande epocali tipo se «Dio stia ancora creando o il ciclo della creazione è concluso». Sua madre vorrebbe che una volta arrivati a destinazione pensasse solo a giocare con i suoi cuginetti, ma lui gli risponde che è stanco di guardare quei cugini che passano il tempo guardando un tablet. Io mi divertivo con loro, ma quando giocavamo a mosca cieca o a nascondino... Quelli erano giochi semplici ma che mi emozionavano e alla sera mi addormentavo felice». Ho due figli di 5 e 7 anni, vorrei provassero questo tipo di felicità.