Ci sono strutture linguistiche che permettono di utilizzare strategie comunicative utili a essere persuasivi, indipendentemente dal contenuto che si trasmette. Le più importanti tra queste strategie linguistiche sono quelle che fanno ricorso agli impliciti. Spesso ciò non comporta problemi etici. Altre volte quel confine viene superato e allora pubblicità e propaganda politica assumono un carattere manipolativo. Non sono conoscenze arcane, che solo pochi spin doctor padroneggiano nelle segrete stanze delle fake news. Sono anzi modi consueti di esprimersi ai quali, proprio per questo, non facciamo sufficiente attenzione. Uno slogan delle elezioni 2006 – «Una sanità che funziona rende tutti più liberi» – o un’affermazione strappapplausi tratta da un recente comizio – «Questa città deve tornare ad avere una dignità» – ne sono esempi tipici. Di primo acchito non siamo particolarmente impressionati, sembrano due delle mille frasi che ascoltiamo in contesti politici senza che ci colpiscano particolarmente. Ma il “trucco” è proprio questo. Lo spiega in un libro scientificamente rigoroso e insieme di impegno civile il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, docente all’Università Roma Tre. La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione (il Mulino, pagine 286, euro 16,00) è infatti uno studio approfondito che usa gli strumenti dell’analisi tecnica concentrandosi sulla comunicazione pubblica in Italia, commerciale e partitica. E lancia un appello a una migliore alfabetizzazione comunicativa, affinché diventiamo consumatori e cittadini più capaci di resistere alle sottili influenze di una comunicazione che fa appello agli automatismi cognitivi e sorpassa il controllo vigile.
Il linguista Edoardo Lombardi Vallauri - .
Professor Lombardi Vallauri, che cosa sono gli impliciti linguistici?
Sono costrutti della lingua che almeno parzialmente nascondono una porzione del messaggio che in numerosi casi, se ne ne fosse consapevole, il destinatario rifiuterebbe. Nel modello che ho elaborato negli ultimi dieci anni, distinguo due tipologie, abbastanza consolidate. La prima è l’implicatura, o impliciti del contenuto. Essa, mentre veicola un contenuto, induce il destinatario a estrarne altri non espressi esplicitamente, spesso con l’aiuto del contesto. È qualcosa che funziona senza problemi nella nostra vita quotidiana, per esempio nel seguente scambio: «Andiamo al cinema questa sera? »; «Domani ho un esame», dove la risposta non è formalmente pertinente alla domanda, ma il messaggio trasmesso è chiaro: «Devo studiare, non posso». Le cose cambiano se si usa uno slogan del tipo: «Di nuovo la tassa di successione? No grazie », in cui il sottinteso è che il partito avversario sia pronto a introdurre una nuova tassa e, se vince, lo farà. E quest’ultima informazione non risulta necessariamente vera. L’essenza persuasiva di questi impliciti sta nel fatto che il destinatario, poiché non “vede” l’emittente asserire quel contenuto – anzi, è lui stesso a costruirlo –, più difficilmente lo metterà in discussione.
Come lavora invece il secondo di tipo di implicito?
Si tratta delle presupposizioni, dette impliciti della responsabilità perché, pur esprimendo un certo contenuto, anziché presentarlo come informazione introdotta al ricevente dall’emittente, lo presentano come un dato di fatto di cui l’emittente sia già a conoscenza. Consideriamo questo dialogo fra un capo e il vice: «Ho deciso di affidare l’incarico a Rossi»; «Ottima idea, specie ora che Rossi ha smesso di bere», dove il vice informa di un elemento che però non asserisce, tanto che il suo scopo potrebbe essere proprio indurre il capo a ripensarci, sebbene affermi che affidare l’incarico a Rossi costituisce un’«ottima idea». In politica si ha un implicito della responsabilità quando un premier sostiene che «bisogna tornare a governare il Paese in modo efficiente», dando per presupposto che finora il Paese sia stato governato male. Que- sti impliciti abbassano l’attenzione critica, perché il destinatario non li vaglia con attenzione, in quanto (su suggerimento dell’emittente) li considera qualcosa di già noto e accettato: alludere al fatto che il dato è già noto induce a prestarvi meno attenzione, anche perché di solito le presupposizioni in cui ci imbattiamo sono vere.
Potrebbero sembrare trucchetti da poco, facilmente smascherabili...
Certo, abbiamo evoluto la tendenza a non fidarci, e i messaggi espliciti del tipo «compra questo», «vota quello» non ci ingannano. Ma dobbiamo considerare che abbiamo risorse cognitive limitate da impiegare al meglio, anche facendo ricorso a processi automatici e inconsci per elaborare più informazione possibile in meno tempo. Gli impliciti sotto apparenza di una cosa ce ne dicono un’altra. Potenzialmente siamo in grado di decostruire i messaggi, ma non possiamo farlo sempre. Lo dimostrano studi sperimentali che abbiamo condotto. Risulta che l’implicatura rivela l’intenzione, ma al tempo stesso occul- ta il messaggio, mentre la presupposizione esprime il contenuto, ma passa inosservata e ha un effetto più durevole perché il destinatario potrebbe non rendersi mai conto che si tratta di informazione nuova e non scontata.
Quanto è «disonesto» utilizzare gli impliciti nella comunicazione pubblica?
Quando un emittente affida agli impliciti informazioni vere in buona fede, si limita a sfruttare un elemento messo a disposizione dal linguaggio per economizzare risorse di processazione. Quando invece lo si fa con le proprie opinioni, equiparandole a fatti, o comunque con un contenuto discutibile, o addirittura falso, la comunicazione diventa a rischio di disonestà. Esprimere opinioni discutibili rimane onesto se le si presenta esplicitamente come tali, anziché farle surrettiziamente implicare dal destinatario o fingere che siano fatti assodati. E più si fa ricorso agli impliciti, più il messaggio può diventare disonesto, come la lingua usata.
Conoscere queste strategie può aiutarci?
Gli studenti a un certo punto dei miei corsi dicono: «adesso capisco, esamino più a fondo i messaggi». Un’alfabetizzazione testuale a scuola risulta incompleta se non insegna anche la distinzione fra esplicito e implicito. Stiamo lavorando perché in alcuni nuovi protocolli di certificazione di qualità della comunicazione aziendale si segnali quando viene implicitato il falso. In Francia, si è fatta una efficace campagna contro l’uso dell’amalgame per la propaganda politica, ovvero l’elencazione di elementi diversi che perciò sembrano così avere aspetti importanti in comune, mentre così non è. Per esempio: «ripulire le città di rapinatori, truffatori e immigrati», come se questi tre gruppi fossero omogenei.
Con il suo gruppo a Roma Tre ha messo a punto un test per quantificare la disonestà dei testi persuasivi, un modo – lei dice – per sorvegliare i politici...
Esattamente. Si tratta di analizzare discorsi o post sui social, individuando gli impliciti e pesandoli, in modo da assegnare un punteggio complessivo che misura le modalità di comunicazione più o meno onesta utilizzate dai singoli esponenti politici. Non è un test di perfetta oggettività, perché i giudizi non hanno natura matematica, ma devono tenere conto di che cosa sia vero e che cosa sia falso, il che non è sempre banale; però rappresenta un passo avanti importante. Per farlo, servono tre “giudici” esperti che lavorano in parallelo e un’ora ogni diecimila caratteri, ovvero mezz’ora di comizio. Uno strumento di questo tipo potrebbe essere adottato da organismi di vigilanza o garanzia indipendenti per offrire agli elettori uno strumento in più di valutazione sull’atteggiamento comunicativo più o meno onesto nei loro confronti, e quindi sulle vere intenzioni dei politici, creando anche una forma di “pressione benefica” su coloro che sono controllati affinché siano più espliciti nei loro messaggi. Con alcuni miei allievi lo stiamo già facendo, attraverso il nostro Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda visibile sul sito www.oppp.it.