sabato 23 febbraio 2019
Esce anche in Italia il libro "Barracoon. L'ultimo schiavo" di Zora Neale Hurston, scritto negli anni Trenta ma poi rimasto inedito, con la testimonianza dell’ultimo schiavo d’America
L’attore Chiwetel Ejiofor in una scena del film “12 anni schiavo”, regia di Steve McQueen

L’attore Chiwetel Ejiofor in una scena del film “12 anni schiavo”, regia di Steve McQueen

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«Dei milioni che sono stati portati dall’Africa alle Americhe, è rimasto un uomo soltanto. Si chiama Cudjo Lewis e oggi vive a Plateau, in Alabama. Questa è la sua storia». Usa un linguaggio netto Zora Neale Hurston, senza fronzoli né artifici. Ma usa soprattutto il suo linguaggio, quello di Cudjo, per raccontare la storia dell’ultimo schiavo d’America, conservando - per quanto possibile nella traduzione italiana - echi di una lingua che affonda le sue radici in Africa. Una storia di dolore e di nostalgia che, scritta negli anni Trenta, è stata pubblicata solo nel 2018 negli Stati Uniti da HarperCollins, ottenendo uno straordinario successo. Ora Barracoon. L’ultimo schiavo è appena uscito anche in Italia per i tipi di 66thand2nd (160 pagine, 15 euro). Zora Neale Hurston, antropologa afroamericana, incontra per la prima Cudjo il cui vero nome è Kossula - nel 1927. Ha ormai 86 anni, e da 67 vive da uomo libero in un Paese straniero, dopo cinque anni e sei mesi in schiavitù.

La sua memoria è ancora lucida e il suo racconto è personale e collettivo al tempo stesso: è la storia dell’ultimo carico di merce umana - 130 persone, metà uomini e metà donne - trasportato dalle coste dell’Africa occidentale all’America, nel 1860, a bordo della nave negriera Clotilda. Quel viaggio segna uno spartiacque, tra un prima che fa male tanto quanto il dopo. Alla maniera dei griot, partendo da lontano e chi lo ha preceduto - il padre, gli antenati… - Cudjo-Kossula racconta della sua gente, gli yoruba (nell’attuale Nigeria) e del potente regno di Dahomey (oggi in Benin), il cui re si è arricchito ed è diventato potentissimo, assaltando le tribù vicine e rivendendo i prigionieri come schiavi ai portoghesi. Barracoon, che dà il titolo al libro, è una delle prigioni lungo la costa, da cui partivano le navi negriere. Quella in cui venne recluso Cudjo - e come lui molti altri - si trova a Ouidah, uno dei tanti porti della tratta atlantica (al centro anche del romanzo di Bruce Chatwin Il viceré di Ouidah).

«Barraccon - sottolinea nella prefazione la scrittrice e attivista Alice Walker, famosa soprattutto per il romanzo Il Colore viola divenuto poi un film di Steven Spielberg - racconta in maniera diretta le atrocità che gli africani hanno inflitto gli uni agli altri, ben prima che alcuni africani in catene, traumatizzati, malati, disorientati e affamati, giungessero via nave nell’inferno dell’Occidente sotto forma di “carico nero”». Si capisce, aggiunge la Walker, «perché in passato, molti neri, in particolare gli intellettuali e i politici neri, abbiano avuto problemi ad affrontare questo testo». Che tuttavia non fa sconti a nessuno. Cudjo è un uomo semplice. Non giudica, non fa politica. Ma il suo racconto ha la potenza della testimonianza e solleva una volta di più il velo su tutto l’orrore di un traffico che tra la fine del Seicento e la fine dell’Ottocento ha ridotto in schiavitù circa 15 milioni di uomini e donne africani, usati come merce, macchine, pezzi di ricambio.

«“Senti chiede Cudjo al suo padrone, Jim Maeher - io sono una cosa tua?”. Lui ha detto: “Sì”». È disarmante e tragico al tempo stesso. Ecco quello che Cudjo e milioni di schiavi sono stati: una cosa di altri. «Il lavoro era molto pesante - ricorda -. Ma non ci lamentavamo per questo. Di notte piangevamo perché eravamo gente che era nata e cresciuta libera, e invece adesso eravamo schiavi. Non capivamo perché… Oddio. Oddio! Cinque anni e sei mesi da schiavo». Anni duri anche per l’incomprensione e la mancanza di solidarietà degli altri neri, quelli americani, che, ricorda Cudjo «dicevano che eravamo selvaggi e ridevano di noi e non ci veniva mai a parlare». Schiavi che si prendevano gioco di altri schiavi. «È una lettura straziante, questa - ammetta la Walker -, inutile girarci intorno». Sono anni turbolenti anche per l’America, quelli della guerra di Secessione, di cui gli schiavi colgono un’eco lontana. Arrivano voci: dicono che quelli del Nord stanno combattendo per liberarli; si sentono spari di fucili in lontananza, ma nessuna notizia precisa. E il tempo passa… Forse, pensa Cudjo a un certo punto, «combattevano per un’altra cosa».

Poi, un giorno, il 12 aprile 1865, alcuni soldati yankee dicono a lui e agli altri che sono liberi. Così, come se niente fosse. «E adesso dove andiamo? - chiedono -. Ci hanno detto di andare dove ci pareva. Signore Iddio, grazie! Non avevamo neppure un baule, non avevamo neanche una casa. Tanto per Cudjo - che spesso parla di sé in terza persona - non faceva differenza: adesso era un uomo libero». Libertà si associa immediatamente al desiderio di tornare a casa, in Africa. Lì, in America, quegli uomini e quelle donne sradicati sentono di non avere né un Paese né una terra. Ma ben presto, per quanto lavorano sodo, si rendono conto che non potranno mai guadagnare abbastanza per tornare indietro. Possono però comprare un po’ di terra lì. E così costruiscono un villaggio e lo chiamano African Town: «Abbiamo fatto l’Africa nel posto in cui ci avevano portato», racconta Cudjo che ora può rievocare la storia della sua famiglia, la tenerezza per moglie Seely, la gioia per i sei figli (tutti con nomi africani e americani), e il dolore per la loro morte.

Poi il lavoro, la vecchiaia, la solitudine. E soprattutto, una grande e viscerale nostalgia che lo accompagna sino alla fine dei suoi giorni: il tema delle radici rievocato, anche in questo caso, con il linguaggio sobrio e struggente di un uomo semplice e nella più assoluta essenzialità. Quella di Cudjo-Kossula, tuttavia, non è solo una storia che ci riporta in maniera illuminante e diretta a una vicenda “chiusa” del passato e al dolore di milioni di persone strappate alla loro terra. È qualcosa che ci disturba, o che dovrebbe farlo, anche per il nostro presente, per un mondo in cui - a cominciare dall’America stessa milioni di uomini, donne e bambini continuano a essere ridotti in schiavitù, per varie forme di grave sfruttamento: dal lavoro forzato alla prostituzione coatta, dal traffico di organi al reclutamento di bambini e bambine soldato. Oggi come ieri privati della loro libertà e dignità.

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