La scultura in cera “Ritratto in vesti di cardinale” (san Carlo Borromeo) attribuita a Luigi Dardani - -
Negli anni Sessanta Andrea Emiliani definiva «celeberrimi cimiteri di Madame Thussaud a Londra, o del Museo Grévin a Parigi» due dei più noti musei delle cere, vale a dire, secondo lo studioso, luoghi di «orripilanti finzioni»; qualche lustro prima di Emiliani, un grande poeta francese, Léon-Paul Fargue, nella prefazione al catalogo del Museo Grévin ne aveva scritto come «la navicella magica e comica sulla quale prendiamo posto per discendere agli inferi, o per prendere il volo alla ricerca dei nostri miti». Per lo spettatore novecentesco, i ritratti in cera e i temi affini dell’anatomia univano arte e scienza sotto le categorie della meraviglia e dell’orrore che si prova quando si guarda, per esempio, il cadavere sul tavolo della dissezione (ma sono anche categorie dell’esperienza religiosa originaria). Il precursore dei Musei delle cere, però, fu un artista francese tardobarocco, Antoine Benoist, oggi poco ricordato per la semplice ragione che delle sue creazioni resta ben poco, ma da una delle pochissime sopravvissute – aveva realizzato le statue in cera a dimensione naturale di tutta la corte reale di Francia, vestite con gli stessi abiti dei protagonisti –, l’altorilievo a Versailles che ritrae il Re Sole all’età di 67 anni, ci rendiamo conto di quale tremenda verità consentiva la cera, materia morbida grazie alla quale la perfidia dell’artista non risparmia al sovrano nessun segno che la vita ha impresso sul suo volto, a cominciare dalle tracce del vaiolo per finire con rughe e pori da cui s’intuisce una barba piuttosto rada e una pelle ormai cadente. Qui l’arte gioca ancora un ruolo di rappresentazione veritiera, senza sconti, della corruttibilità del corpo anche in chi, per il suo aureo soprannome, aspirava a essere eterno. Emiliani in una frase circoscriveva l’atteggiamento mentale nella prima metà del Settecento verso la realtà: «Sentimenti di arcadica e ottimisitica fiducia nel verosimile, assai prima di divenire semi di implacabile obiettività», per notare poi come avesse inciso sulle stesse espressioni figurative, fra maschere di «carnevali un po’ anemici » (per nuove finzioni della ricchezza) e sedute anatomiche in teatri universitari, che avevano incentivato la produzione industriale di preparati anatomici in cera o altro – «carne e muscoli di perfetta verosimiglianza» – che rendevano meno necessario l’uso di cadaveri (e il traffico spesso illecito che se ne faceva), uso moralmente eccepibile per alcuni critici e teologi.
Ilaria Bianchi, che cura la mostra Verità e illusione. Figure in cera del Settecento bolognese, con Massimo Medica, Mark G. D’Apuzzo e Irene Graziani, al Museo Davia Bargellini e a Palazzo Poggi (fino al 12 maggio), ricorda nel catalogo edito da Silvana come scontando vari pregiudizi queste sculture, che si affermano in parallelo al gusto e all’uso rinnovato dei manichini e delle statue vestite nelle processioni religiose, rappresentino una sfida al reale indossando abiti e parrucche con capelli veri, volti su cui fioriscono tutte le componenti organiche umane: ciglia, barba, peluria, talvolta ossi per simulare denti. Il rimando va al modello popolare della devozione sviluppatasi nei Sacri Monti: sembrano teatranti consumati, scrive Ilaria Bianchi, che nelle intenzioni dei loro artefici sfiorano tuttavia il feticismo del verosimile. Ma nel Novecento hanno trovato nuovi dissacranti paralleli con l’iperrealismo e la Pop Art (tuttavia, Degas nella Ballerina di quattordici anni, già nel 1881 aveva riscoperto la ceroplastica eseguendo l’opera con cere policrome e rivestendola di abiti e accessori veri prodotti dalle boutiques per bambole). Qui si deve essere franchi e dire che, in effetti, queste sculture “più vere del vero” suscitano qualche volta anche ribrezzo, perché in alcune senti che oltrepassano un limite di rappresentazione spingendosi sulla soglia degli inferi persino quando si tratta di figure devote (viene da pensare alle sculture della Cappella Sansevero a Napoli). È proprio questo che può rendere la finzione “intollerabile”, ovvero troppo vera per gli occhi, mentre la ragione argomenta le basi di una meraviglia fondata sul massimo di artificiosità nell’impudicizia del verosimile.
La scultura in cera di Filippo Scandellari “Ritratto di padre Ercole Isolani” - -
È un’antica sapienza, già ricordata nella Poetica da Aristotele e interpretata in vario modo dal teatro, che non si deve volgere lo sguardo all’orrore. La cera lascia trasudare la morte in ciò che dovrebbe ricordare la vita, la sua imperfezione, ma come scrisse il filosofo Jean Guitton, forse sulla scorta delle riflessioni di Jankélévitch, niente è più puro della morte. La cera è materia duttile alla mano dell’artista, assai più del gesso e della creta, e in uso fin dall’antichità. Ma non si deve dimenticare che, come scrisse Kant, la mano rappresenta il secondo cervello dell’uomo. La mano e l’occhio insieme possono infrangere il divieto di rappresentare l’orrore, e vincere persino la sfida col computer: nessun manichino uscito da una stampante 3D saprà imitare il reale così in profondità come la cera, per quell’alito di vita che inorgoglisce l’artista di fronte al Creatore che soffiò nel pupazzo di creta il proprio spirito rendendolo vivo. Ma il golem, in queste ceroplastiche, sembra presentarsi come rianimazione del cadavere. A Bologna il caso da manuale sembra essere il duplice Ritratto di monsignor Francesco Zambeccari. Le due sculture sono assegnate alla mano di Luigi Dardani, che forse le realizza a distanza di quindici anni l’una dall’altra. Identica postura, stesso vestiario dominato dalla mantella paonazza (fu prelato domestico di Benedetto XIV) merletti su tessuti chiari e zucchetto nero; il secondo busto però mostra il monsignore con parrucca e caratteri somatici più bolsi. La differenza maggiore sul piano formale è la postura delle mani: ottimamente articolata «in un atto di erudita oratoria», nel ritratto del Museo Davia Bargellini; più inerte nell’esemplare di collezione privata.
Diversa anche la vivacità del volto, molto incisiva l’arcata sopracciliare del primo dei due ritratti, mentre il secondo sembra spegnersi in un velo opaco di smarrimento sullo sguardo del presule che pare stia osservando in uno specchio la propria morte. Considerando che all’epoca Dardani era molto richiesto, si potrebbe anche pensare a un ritratto eseguito nella bottega o, addirittura, una copia di altra mano. Lo stesso Dardani è l’autore proposto da Ilaria Bianchi per due ritratti che raffigurano San Filippo Neri e San Carlo Borromeo, opere inserite in nicchie nel coretto di Santa Maria Galliera, lì vincolate per lascito testamentario. I documenti non parlano chiaro, ma il fondatore degli oratoriani appare con un volto molto espressivo dove la bocca risulta semiaperta, come già nel ritratto Zambeccari. Quanto a san Carlo, in un primo momento ho pensato di avere un’allucinazione e di trovarmi di fronte a un canular di Maurizio Cattelan – che non è affatto inesperto di ceroplastica avendola talvolta praticata all’inizio della sua carriera –, una beffa col suo autoritratto in vesti di cardinale; sospetto indotto dalla somiglianza del volto con quello dell’artista in virtù anche di quel nasone e per lo sguardo da birbante, ben poco consumato dal rigore morale, come appare di solito il Borromeo. Insomma, per qualche minuto ho creduto che potesse essere un tiro mancino del nostro contemporaneo. I documenti tuttavia attestano una collocazione nel luogo di vecchia data e questo mi ha risvegliato dal sogno a occhi aperti (continuo a pensare però che quel ritratto corrisponda ben poco all’immagine del Borromeo che ci è giunta). Su questo versante dell’illusione che rende la realtà “più vera del vero” si era mosso fra i primi Filippo Scandellari, bolognese che nella sua città fu allievo Angelo Gabriello Piò. Il busto che realizzò della serva di Dio Anna Maria Calegari Zucchini, parla una lingua nuova dove l’iperrealismo vuol essere anche un’azione veritativa dell’odore di santità in cui morì la donna. È un nuovo modello di devozione dove la stessa teca lignea studiata ad hoc funge quasi da edicola votiva. A Scandellari è stato restituito un gruppo di opere che prima erano assegnate alla mano di Piò, così anche il San Pietro di Santa Maria della Pietà che esalta molto le sue qualità di scultore tout court. Scandellari ha anche una notevole sensibilità nel definire tipi umani, come si vede nelle due teste di villani, lei che ride e lui che piange, conservate al Prado e attribuite al bolognese da Andrea Daninos dopo che per molto tempo erano assegnate alla mano del ceroplasta pratese Giovanni Francesco Pieri. Come scrive nella scheda Ilaria Negretti, sono vere e proprie teste di carattere o allegorie di sentimenti. Il suo capolavoro, in questa mostra, è il Ritratto di padre Ercole Isolani, dove ogni millimetro di pelle emana sentore di morte: le lentiggini senili, i pori e le punte dei peli della barba mal rasata, le grinze sulle dita, i lineamenti disseccati negli occhi e nel naso testimoniano una ricerca iperrealistica che è quanto di più prossimo all’estetica del cadavere. A Palazzo Poggi oltre le cere anatomiche di Ercole Lelli e i notevoli ritratti della ceroplastica bolognese Anna Morandi Manzolini, che ritrae se stessa e il marito di cui ereditò il laboratorio glorificandone l’arte, sono esposti altri elementi anatomici che, pur funzionali alla scienza denotano però anche l’inclinazione negromantica di un’arte che nelle viscere umane cercava un segreto che, se risultasse mancante ovvero banale rappresentazione meccanica della vita (come intendeva il corpo umano il francese La Mettrie), potrebbe dar ragione a Sartre quando scrisse dell’uomo come di una “passione inutile”.