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Anticipiamo la prefazione scritta dalla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, al libro Vite da ariani di Guido Dalla Volta, in uscita oggi per Enrico Damiani Editore (pagine 512, euro 23,90). L’autore, ingegnere bresciano nato nel 1956, racconta in forma di romanzo il tentativo vano della sua famiglia di sfuggire allo sterminio, che ha inghiottito suo nonno, Guido come lui, e suo figlio maggiore Alberto (divenuto amico di Primo Levi ad Auschwitz). La nonna Emma e il figlio minore Paolo, padre dell’autore, sono invece sopravvissuti. Ma racconta anche la sofferenza del ricordo, nella paura che l’orrore possa ripetersi. E, infine, il coraggio di prendere la parola in nome della memoria. Il libro sarà presentato il 10 ottobre a Brescia, dalla Fondazione Luigi Micheletti presso la Sala del Camino di Palazzo Martinengo delle Palle, e il 29 ottobre a Milano al Memoriale della Shoah.
Il romanzo di Guido Dalla Volta Vite da ariani è quello che può dirsi un romanzo-verità. Dove però la componente di verità storica, di memoria e testimonianza individuale, familiare e collettiva è nettamente prevalente sulla componente romanzesca e di fantasia.
La vicenda narrata si presta, anzi lo impone. È la storia di una famiglia ebrea italiana, bresciana, ricostruita dagli anni Trenta immediatamente prima delle leggi razziste del 1938, passando per la guerra, la Shoah e la Resistenza, per giungere alla difficile e drammatica esistenza dei sopravvissuti, i pochi scampati, i parenti, ebrei e non, in un’Italia sospesa fra passato e futuro, distruzione e ricostruzione, memoria e oblio.
La storia che Guido Dalla Volta racconta è quella dell’“Alberto di Primo Levi”. Del personaggio, cioè, che lo scrittore torinese richiama a più riprese in Se questo è un uomo (e in altri scritti) e di cui ricorda l’amicizia con lui, ma anche la rettitudine e il coraggio. Alberto che da Brescia era finito ad Auschwitz insieme al padre Guido. Entrambi destinati alla morte in circostanze rimaste avvolte nel mistero, sconosciute e inattingibili ai parenti sopravvissuti e tali dunque da perpetuare in loro il dolore e una sempre più flebile speranza.
La storia narrata da Guido Dalla Volta incrocia evidentemente la storia della mia famiglia. Mi è capitato di scrivere nelle mie memorie che una volta letto Se questo è un uomo fui colta dal sospetto o per meglio dire dall’illusione, dalla speranza che quell’Alberto potesse essere mio papà. Ho raccontato anche che scrissi a Primo Levi, che però mi rispose che si trattava di un altro Alberto.
Ma ci sono anche altri e notevoli profili che si intrecciano: entrambe le vicende vedono infatti protagoniste famiglie ebraiche laiche, sostanzialmente non praticanti e integrate nella società italiana degli anni Trenta, affermate nel mondo professionale e imprenditoriale e accomunate da attività legate al commercio dei tessuti; entrambe non allarmate a sufficienza dalle leggi razziste del 1938, convinte che Mussolini non avrebbe mai fatto come Hitler ecc. Ma la cosa forse più tragicamente sorprendente è che entrambe le famiglie furono invitate per tempo a fuggire all’estero, ma, né Guido, il padre di Alberto, né mio papà Alberto presero in considerazione l’eventualità, sempre nell’illusione che in Italia certe cose non sarebbero mai accadute...
Ma anche la Svizzera c’entra molto con le vicende delle nostre famiglie. Alcuni parenti dei Dalla Volta erano infatti riparati a Lugano e da lì vanamente avevano invitato all’espatrio il resto della famiglia. D’altra parte, io e mio papà cercammo disperatamente di riparare in Svizzera, ma dopo che eravamo riusciti ad attraversare il confine fummo respinti e gettati in braccio ai fascisti. Il protagonista del romanzo, Guido, a un certo punto dice, con riferimento agli svizzeri: «Hanno dichiarato che “la barca è piena”», esattamente come fu detto a me e a mio padre dalle inflessibili guardie di frontiera svizzere.
Il romanzo di Guido Dalla Volta ricostruisce insomma la “caduta agli inferi” che travolse le esistenze di migliaia di ebrei in Italia e milioni in Europa. Ma tratta anche della difficile, se non impossibile, ripresa della “normalità” per quanti sopravvissero nei decenni successivi al 1945. Un romanzo di testimonianza e memoria, dunque, ma la speranza è che possa essere anche un romanzo di formazione per quanti sapranno leggerlo, apprezzarlo, trarne lezione e monito.