Ci sono storie di sport che vanno ben oltre un campo di football, di baseball, il parquet di un palazzetto o una pista di atletica. Sono vicende umane, rare, quelle di autentici eroi esemplari della galassia olimpica che salgono sugli spalti di uno stadio, ed entrano, per sempre, nel cuore dei tifosi della grande Storia. In quella, entra di diritto e sale in cima al gradino più alto del podio la straordinaria vicenda umana e sportiva di Eric Liddell. L’uomo che per 43 anni visse verticalmente e corse in piano la distanza che va dall’«eroe olimpico a martire moderno ». Questo è anche il sottotitolo della biografia monumentale scritta da Duncan Hamilton e ora proposta in edizione italiana dalla sempre attenta e raffinata 66thand2nd (La vita di Eric Liddell da eroe olimpico a martire moderno, pagine 414, euro 23,00). Il libro di Hamilton si intitola Momenti di gloria, come il memorabile capolavoro cinematografico di Hugh Hudson, premiato con quattro Oscar, nel 1982, compresa la miglior colonna sonora di Vangelis. Ed è su quelle note vibranti del compositore greco che andrebbe letta - o riletta per chi la conosceva già attraverso il film - , la trama epica dell’atleta scozzese, approfondita ed epurata dalle solite e inutili leggende metropolitane. Un racconto da sfogliare tutto d’un fiato, come fosse una finale di velocisti alle Olimpiadi, la “corsa eterna” di Eric Liddell. Storia di un predestinato a stupire il mondo e a correre in soccorso degli altri. Degli ultimi, quelli per cui aveva deciso di arrivare primo al traguardo, al solo scopo di essere riconosciuto come un uomo dotato del potere di incidere sulla vita dei sofferenti, dei poveri materialmente e anche quelli di spirito. Quello, lo spirito del benefattore cristiano, l’aveva ereditato dai suoi genitori James Liddell e mamma Mary Reddin. James era un missionario protestante scozzese comandato in Cina dove Eric, secondo di quattro fratelli (Rob il maggiore, Jenny e Ernest il più piccolo) nacque a Tientsin nel 1902. Ma a sei anni Eric, con suo fratello Rob, fecero ritorno nella madrepatria per iscriversi al londinese Eltham College. Qui inizia l’epopea di un atleta polivalente, forte in tutte le discipline in cui si cimentasse. Eric era portato per il cricket, ma ancor di più per il rugby a 15. E infatti quando farà il suo ingresso all’Università di Edimburgo il suo allenatore di atletica, Tom McKerchar, dovrà condividere il talento di Liddell con la nazionale di rugby della Scozia con cui farà il suo debutto nel 1922, a Parigi nel match del “Cinque Nazioni” contro la Francia. Appena due anni dopo, il “campionissimo buono” sarebbe tornato nella Ville Lumiere dove per espressa volontà del padre delle Olimpiadi moderne, il barone De Coubertin, si tenevano nuovamente i Giochi del 1924 (bis parigino dopo quelli del 1900). Tra i momenti di gloria concessi al nuotatore americano Johnny Weissmuller il futuro Tarzan hollywoodiano e il campione olimpico in carica del mezzofondo, il finlandese Paavo Nurmi - il non anglofilo Gianni Brera un giorno l’avrebbe intervistato in latino - quelli che sono rimasti iscritti a caratteri d’oro riguardano il «non favorito» Liddell. Allo stadio Colombes, Eric vrebbe potuto dire la sua anche sui 100 metri e sulle due staffette in programma, ma si disputavano di domenica e quello «è il giorno del Signore. Grazie, ma non posso correre», comunicò in anticipo all’esterrefatta British Olympic. Peccato, da campione scozzese della velocità, a Parigi i 100 li avrebbe corsi con la scioltezza naturale della sua falcata e la filosofia dell’amateur che tanto è apprezzata anche da papa Francesco. Quella dei 100 divenne invece la gara dell’amico ma “nemico” in pista, Harold Abrahms. Ebreo inglese, Abrahms per tutta la vita ha convissuto con il suo tarlo: che ne sarebbe stata di quella finale dei 100 se Liddell fosse sceso in pista? Un cattivo pensiero che, aiutato dal suo coach, l’italo-britannico Sam Mussabini, allora il professionista Abrahms bruciò in un lampo: 10 secondi e 6 decimi, tanto bastò per mettersi al collo la medaglia d’oro di campione olimpico dei 100. Una vittoria che rimase insuperata per l’atletica del Regno Unito fino ai Giochi di Mosca 1980, quelli del boicottaggio americano, quando l’impresa riuscì di nuovo ad Alan Wells (medaglia d’oro nei 100 metri e argento nei 200, dietro a Pietro Mennea). Un trionfo che Wells non dedicò ad Abrhams in quanto “antenato” di specialità: «No, questa medaglia l’ho vinta per Eric Liddell», dichiarà sorridente al traguardo. Un atto dovuto, Wells «era nato nell’Edimburgo di Liddell ed era cresciuto a meno di dieci chilometri dalla Morningside Church», lì dove ora sorge il Liddell Centre. Era il giusto tributo alla memoria di quel 22enne che a Parigi aveva ottenuto soltanto il bronzo nei 200 ma che poi aveva cambiato il corso dell’atletica di allora con il record mondiale e l’oro nei 400 piani (47’’6). E tutto ciò, disse, era stato possibile solo perché «ho corso il primi 200 metri più veloce che potevo. Poi gli altri 200 con l’aiuto di Dio». Quel Dio amato e venerato con purezza di cuore dal giovane che, dopo la sbornia di celebrità e la laurea in Scienze conseguita a Edimburgo, lo riportò missionario in Cina. Prima però ci fu l’estate calda con Eileen Soper, la giovane pittrice che non dimenticherà mai il suo volto e quella incisione su un faggio in cui impresse le sue iniziali “E.L.”. Quelle due lettere, Eileen le scolpì per sempre nel cuore di poetica «pavoncella», ed eternò il volto e l’elegante postura dell’amato eroe di Parigi in un quadro. Un ritratto di Liddell ritrovato nella vecchia casa abbandonata della Soper dove la tela «era rimasta al suo posto sul cavalletto, per anni...». Però, il grande amore della sua vita e la custode della memoria liddelliana fu la missionaria canadese Florence MacKenzie, sposata dopo che in Scozia era stato ordinato ministro di culto. Il matrimonio, da cui nacquero tre figlie (Patricia, Heather e Maureen) venne celebrato alla Union Church di Tientsin dove nella missione Liddell insegnava alle scuole dei poveri. L’atletica ormai era solo un bellissimo ricordo di gioventù e quando un giornalista sportivo gli chiese se non provasse nostalgia per le gare ora che era diventato un missionario, con il tono serafico di chi alle luci della ribalta aveva anteposto la divina illuminazione rispose convinto: «La vita di un uomo conta molto di più facendo questo che altro». La sua breve corsa terrena fu un prezioso insegnamento per tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo e di ascoltarlo, fino alle fine della sua corsa che avvenne nel campo di internamento di Weihsien (Cina, l’attuale Weifang). Fu lì che lo deportarono i giapponesi mentre riusciva a mettere in salvo moglie e bambine che si rifugiarono a Toronto. Nel campo circa 1.500 prigionieri assistettero all’ultima gara di Liddell. La triste sfida finale che lo vide soccombere al più veloce Aubrey Grandon, il quale non si vantò mai di aver battuto un «grande uomo, era un Liddell morente ». Gli ultimi mesi passati lì dentro, era provato dalla prigionia, pieno di dolori fisici e in preda agli stenti della fame, con un tumore al cervello che lo stava consumando, lentamente. Unico conforto era la lettura del Racconto di due città di Dickens e la visita dei compagni del campo. Come lo “scalzo” Steve Metcalf, al quale generosamente donò le sue scarpe chiodate d’atletica. «Prendile, tanto a me non servono più», disse Liddell a Metcalf che non ha mai dimenticato quel gesto e l’insegnamento più grande che gli ha lasciato: «Ama i tuoi nemici». “The Big Red” come lo chiamavano con ammirazione i prigionieri di Weihsien morì da «martire» dello sport, il 21 febbraio del 1945. Liddell ha avuto il privilegio di essere sepolto nel Mausoleo dei Martiri di Shijiazhuang, cosa assai rara per un non cinese. «In ogni fine ci sono fili per tessere un nuovo inizio», scrive Hamilton. E infatti Eric Liddell oggi è un faro per le giovani generazioni britanniche che su Twitter rilanciano i suoi pensieri e le citazioni tratte da Le discipline della vita cristiana l’opera che aveva scritto nella missione di Tientsin. Tanti momenti di gloria e anche qualche rimpianto. Sua figlia Maureen non ha mai conosciuto quel padre dalla fede incrollabile che prima di spirare su un foglio di carta color crema ha lasciato scritto un ultimo messaggio: «All will be well». Un augurio a tutti gli uomini di buona volontà: «Andrà tutto bene».
La vicenda dell’atleta e missionario dopo il film premio Oscar “Momenti di gloria” rivive in una biografia monumentale
© Riproduzione riservata