Kenzaburō Ōe (1935-2023) - Reuters
Il 25 novembre 1970 Yukio Mishima, insieme a quattro affiliati del Tate no kai, il movimento nazionalista e revanscista giapponese che non accettava la smilitarizzazione del Paese, s’introdusse nel ministero della difesa nazionale. Prese in ostaggio il generale Morita e lo costrinse a convocare nel cortile i militari. Tema del discorso -che rivolse ai soldati dal balcone- la drammatica contraddizione tra il vertiginoso sviluppo materiale del Giappone e la perdita irreversibile d’ogni forma di spiritualità, nella soppressione di tutti i legami con la sua nobile tradizione. Alla fine del proclama -in cui invitava i soldati, che assistevano attoniti, a vincere la sfida lanciata in vista d’una restaurazione dei valori dei padri-, arrivò lo spettacolare harakiri: e cioè il suicidio rituale attraverso decapitazione per mano d’un compagno. Kenzaburō Ōe, morto il 3 marzo scorso (ma la notizia è stata diffusa soltanto ieri), che pure fu suo attento lettore, di Mishima fu l’esatto antipode. Mishima era nato il 14 gennaio 1925 a Tokyo, Kenzaburō Ōe, invece, sull’isola di Shikoku, nel sud ovest del Giappone, il 31 gennaio 1935. Li divideva soltanto un decennio: ma dieci anni furono più che sufficienti a differenziare la loro formazione e il loro sentimento patrio, figli come furono di due Giapponi diversi, se non opposti: Mishima di quello precedente all’umiliazione bellica, Kenzaburō Ōe dell’altro, annichilito e straziato da due bombe atomiche, cosa che comportò, dentro quella loro antitesi, anche una drastica contrapposizione politica che condusse quest’ultimo all’accettazione senza riserve dei valori liberali e democratici dell’Occidente.
Kenzaburō Ōe, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1994 (secondo scrittore giapponese a ottenerlo dopo Yasunari Kawabata, che lo ebbe nel 1968), fu infatti irriducibilmente antinuclearista e pacifista. Basterebbe pensare solo al lungo saggio pubblicato nel 1965, Hiroshima Notes, ove lo scrittore si concentrava su ciò che patirono le vittime della bomba atomica, primi esseri umani a subire forme di sterminio di massa mai sperimentate, cui fece seguito, alcuni decenni dopo, il carteggio con lo scrittore con Günter Grass, Ieri 50 anni fa, tradotto da Archinto. Un libro unico Hiroshima Notes, paragonabile soltanto, forse, alle pagine che il tedesco Winfried G. Sebald, figlio d’un altro popolo martoriato da violentissimi bombardamenti, affidò alle stampe trentaquattro anni dopo col titolo Storia naturale della distruzione. Bisognerà anche ricordare il suo impegno per gli abitanti di Okinawa, l’isola più meridionale del Giappone, gli unici tra i loro connazionali che subirono combattimenti sul proprio suolo, senza dire di quello che gli stessi soffrirono lasciati, finita la guerra, sotto l’occupazione americana che si protrasse per molti anni. Il suo radicalismo politico militante fu del resto senza compromessi e sta tutto in questi due gesti: il rifiuto dell’Ordine della Cultura, onorificenza assegnata dalla casa imperiale giapponese, e l’accettazione nel 2002 della Legion d’Onore della Repubblica francese. Ma è anche testimoniato dall’ammirazione nei confronti dell’intellettuale engagé per eccellenza, Jean-Paul Sartre. Il successo internazionale, però, lo guadagnerà rendendo pubblica nel 1964 una tragedia familiare, quella di padre d’un bambino cerebroleso, che lo porterà a scrivere Un’esperienza personale, poi Insegnaci a superare la nostra pazzia (1969), infine Il verbale di un pinch runner (1976). Se ne sarà di sicuro ricordato Giuseppe Pontiggia, lettore di tutti i libri, quando scrisse Nati due volte (2000), in cui il figlio Andrea, disabile, curiosissimo e sapiente, acquista -col candore dell’innocenza e la sua forza disarmata- i connotati d’una figura salvifica capace di mettere per ciò stesso alla berlina le miserie e l’ignoranza dei “normali”.
A contemplare la sua opera tutta insieme, ora che la sua esistenza s’è definitivamente suggellata in sé stessa, colpisce la divaricazione tra l’adesione profonda ai valori dell’Occidente e la struggente -e ricorrente- nostalgia per un mondo in cui le abitudini erano oneste e i gerghi solidali, esemplificato dal mito del «villaggio». Già, il villaggio: rinserrato nel suo orgoglioso isolamento sulla natia Shikoku, i cui abitanti combattivi e ribelli restano riluttanti a ogni liturgia del Potere, forti anche di quelle presenze ctonie che vivono nella foresta e li proteggono. Penso a libri come Il grido silenzioso (1967) e al frondosissimo romanzo M/T e il racconto delle meraviglie della foresta. È difficile non pensare, a questo proposito, a un grande scrittore del Nord Europa come il norvegese Knut Hamsun, anche lui vincitore nel 1920 del Premio Nobel, che combatté con tutte le sue forze la modernità in nome di valori etnici tradizionali, su posizione però opposte a quelle di Kenzaburō Ōe, aderendo assai ingenuamente, e senza molta consapevolezza, al nazismo, pagandone poi feroce dazio con l’internamento psichiatrico. Quanto all’amore per la Letteratura, soprattutto occidentale, di uno scrittore che conosceva assai bene Dante, basterebbe rammentare la trilogia che porta un comune sottotitolo, Verde albero in fiamme, ispirato a Yeats: Quando il Salvatore sarà percosso (1993), Vacillare-Vacillation (1994), Nel sole immenso (1995). Un amore che, probabilmente, trova il suo apice in Gli anni della nostalgia (1987), romanzo di formazione intarsiato di innumerevoli citazioni che racconta l’apprendistato sentimentale di Kei, il narratore, a opera d’un singolare maestro, Gii, lo sciamano eremita già incontrato in Il grido silenzioso. Conclusione sentimentale: se penso alle fotografie di Kenzaburō Ōe anziano mi pare come di rivedere uno scrittore sardo ed europeo di cinque anni più vecchio che ho molto amato, Salvatore Mannuzzu: stesso volto scavato dai torti del tempo; stesso ottimismo politico della volontà; medesima sterminata cultura letteraria.