giovedì 10 settembre 2020
L'autrice, nata come Stalin nel Paese ex sovietico, ha scritto in tedesco un romanzo di oltre mille pagine sull’ascesa e la fine del comunismo
La scrittrice georgiana Nino Haratischwili

La scrittrice georgiana Nino Haratischwili - Danny Merz

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«Non so se un libro possa aiutare nel venire a patti con la memoria – dice Nino Haratischwili –. Di sicuro può attirare l’attenzione, mettere in evidenza un certo aspetto della realtà, affinare il nostro sguardo, renderci più sensibili ». A sentirla parlare con tanta modestia, non sembrerebbe neppure l’autrice di un romanzo imponente come L’ottava vita (per Brilka) (traduzione di Giovanna Agabio, Marsilio, pagine 1148, euro 24,00). Nata a Tbilisi, in Georgia, nel 1983, oggi Haratischwili si collegherà da Amburgo con il Festivaletteratura per dialogare con Giorgio Fontana e Simonetta Bitasi sul tema 'Di generazione in generazione'(ore 16, presso il Chiostro del Museo Diocesano). Oltre che un’epopea sull’ascesa e caduta del comunismo in Georgia, infatti, L’ottava vita è una grandiosa storia familiare, raccontata nella prospettiva di una narratrice fittizia, Niza, che come Haratischwili ha lasciato il suo Paese per stabilirsi in Germania, facendo del tedesco la propria lingua letteraria. «Inizialmente l’impulso per L’ottava vita è venuto dal desiderio di comprendere meglio il contesto in cui sono nata e cresciuta, la situazione politica del mio Paese e le persone che vi abitano – spiega la scrittrice –. Ben presto mi sono resa conto di come la storia della Georgia possa essere compresa solo in una prospettiva più ampia. Il viaggio si è allungato, il libro ha assunto queste dimensioni. In generale, tuttavia, non penso che l’arte abbia il potere di guarire le ferite, né che questo sia il suo compito. Semmai ha la capacità di offrirci punti di vista differenti e di creare una profonda empatia».

Può anche portare al perdono?

Forse, anche se resto dell’idea che non sia tanto semplice. Se veramente l’arte avesse proprietà terapeutiche, l’umanità avrebbe già smesso di farsi la guerra o, almeno, avrebbe imparato di più dalla storia. L’arte può invece costruire legami tra le persone, suggerire un’altra visuale, favorire la comprensione reciproca e in questo modo, sì, mettere un po’ di pace con il passato.

Vale anche per la Georgia, che è stata la patria di Stalin?

A differenza di quanto è accaduto in Germania, per esempio, in Georgia non si sono mai fatti i conti con il passato, non lo si è analizzato come sarebbe stato necessario. Negli ultimi trent’anni il Paese è stato troppo impegnato nella sopravvivenza tra una crisi e l’altra. Di sicuro, in un clima tanto fallimentare, la memoria storica non è considerata una priorità. Oggi i giovani sono decisamente critici verso l’era sovietica e numerosi artisti dedicano la loro attenzione a quel periodo, ma nell’opinione pubblica resta ancora molto da fare. Basti pensare al fatto che l’allestimento del museo dedicato a Stalin è rimasto immutato dagli anni Cinquanta a oggi.

Perché ha scelto di scrivere in tedesco?

Purtroppo è la sola lingua in cui riesco a esprimermi in forma letteraria. Quando vivevo in Georgia scrivevo anche in georgiano, ma da allora è trascorso parecchio tempo. Nonostante questo, per me la lingua madre rimane molto importante: non potrei parlare in tedesco con i miei figli. Considero un grande dono questa opportunità di frequentare altre lingue e altre culture, fino a renderle mie. In Georgia c’è un detto in proposito: più lingue parli, più persone puoi essere. Ed è proprio così, il passaggio da una lingua all’altra offre davvero prospettive inattese.

Oltre che di letteratura, nell’Ottava vita si parla molto di musica, di cinema, di danza…

Per me l’arte è sempre stata una sorta di rifugio, è sempre stato il modo in cui cercavo di comprendere la vita e le persone. Per quanto riesco a ricordare, ho subito amato la lettura. Fin da bambina, ogni volta che qualcosa mi sfuggiva, mi immergevo nei libri e lì scoprivo le risposte di cui avevo bisogno. Ci sono persone che trovano consolazione nella natura o nella matematica. Per quanto mi riguarda, l’arte mi permette di affrontare la vita e di comunicare con il mondo

Qual è, secondo lei, la responsabilità del narratore?

Ho impiegato parecchio tempo prima di capire come avrei potuto scrivere questo libro. Dovevo destreggiarmi tra moltissimi episodi storici, ma volevo evitare il ricorso a un narratore onnisciente. Mi è stato molto utile nascondermi dietro uno dei personaggi, Niza, che a sua volta si rivolge a un interlocutore ben preciso, la giovanissima Brilka. Si è generata una sensazione di immediatezza, di urgenza, come in una lotta per la sopravvivenza. Niza dà sempre voce ai propri dubbi, in più di un’occasione non ha alcuna certezza su che cosa sia o non sia accaduto, eppure non smette di scrivere. Il mio obiettivo era appunto di mostrare la fragilità della narrazione, la sua porosità. Una componente di ignoto rimane, ma al centro di tutto, per me, c’è la convinzione che un racconto non si basa sulla certezza dei fatti, ma sulle ipotesi che possiamo formulare. Davanti a una lacuna, è la nostra immaginazione a intervenire per colmarla. Questo comporta indiscutibilmente una responsabilità. Raccontare una storia significa sempre operare una selezione, una scelta.

Quanto le assomiglia Niza?

L’ottava vita non è un’autobiografia, non è la storia della mia famiglia. La memorialistica non è il mio genere e, se devo essere sincera, non mi interessa neppure. Per me l’immaginazione conta comunque più dei fatti. Intendiamoci, ci sono grandi scrittori che raccontano benissimo di sé, ma non sono una di loro. D’altro canto, questo romanzo è per me qualcosa di incredibilmente personale, perché è attraversato dalla stesse domande che pongo a me stessa. Non potrei scrivere altrimenti.

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