Philippe Leroy in un'immagine d'archivio - Ansa
«La foglia, con un sospiro, si posò ai suoi piedi. Addossato alla propria ombra...». Sono i versi di Autunno, una delle tante poesie scritte da un “vecchio guerriero” dello spettacolo d’arte varia, come Philippe Leroy, che sta per varcare la soglia dei 90 anni. Per chi è nato e cresciuto con la tv in bianco e nero, se dici Philippe Leroy immediatamente lo associa al volto di Yanez de Gomera, il personaggio del nobile guascone lusitano, sodale della “Tigre della Malesia”, interpretato dall’attore francese nello sceneggiato Rai, Sandokan – regia di Sergio Sollima – . Le avventure di Kabir Bedi (Sandokan) e di Yanez-Leroy, nelle sei puntate trasmesse nel gennaio-febbraio del 1976, davanti al piccolo schermo ipnotizzarono un intero Paese.
«Trenta milioni a puntata, “180 milioni di italiani” hanno visto la mia bella faccia – sorride Leroy – che non è mai stata quella di un attore vero... Questo mestiere l’ho fatto senza volerlo, ed è una delle poche cose di cui sono sicuro dall’alto dei mie 90 anni». Novant’anni, il 15 ottobre, per questo cuore impavido, nato in un’aristocratica famiglia di diplomatici francesi («nei Leroy-Beaulieu ci sono almeno sei generazioni di ufficiali dell’esercito e ambasciatori») che ha vissuto un numero di vite forse pari agli oltre 200 film e le decine di commedie in cui figura nel cast.
Ma scusi monsieur Leroy, con un curriculum artistico del genere come fa a non sentirsi attore?
Lo spiego nella mia autobiografia Profumi(Campanotto Editore). Prenda a pagina 185 e legga: «Si inizia col dire: come si chiama questo giovane attore? Philippe Leroy. Seconda fase – Toh ecco Philippe Leroy! Terza fase – Oh! Assomiglia a Philippe Leroy! Ultima fase – Come si chiamava quell’attore? ... ma sì dai, si lanciava con il paracadute! ... per poi sparire per sempre, con il seguente epitaffio: Philippe Leroy-Beaulieu, nato a Parigi il 15 ottobre 1930. Disperso» – sorride divertito – . Ha capito adesso? Ho fatto l’attore per sessant’anni, ma non sono mai stato un membro della famiglia del cinema.
Eppure appena arrivò in Italia, nel 1961, “esule” dalla Francia per motivi politici, a Roma ad accoglierlo c’erano Vittorio Caprioli e Franca Valeri.
Un caso. Li conoscevo già, li avevo visti recitare a Parigi con la loro compagnia, il “Teatro dei Gobbi”. Bravissimi, Franca poi, carissima, una donna geniale che è rimasta in scena praticamente fino a cent’anni... Vittorio mi incontrò in un caffè di Piazza del Popolo, mi aveva visto l’anno prima nel mio primo film Le trou(Il buco), un grande successo in Francia, e così mi offrì di lavorare nel suo primo film da regista Leoni al sole. Da quel momento in poi il cinema francese mi ha dimenticato, ma in compenso sono stato adottato da quello italiano che mi ha trattato come un figlio.
Un figlio di una dinastia mlitare della “Legion d’onore”, il tenente Leroy, scampato a mille battaglie, dall’Algeria all’Indocina. Però lei nei suoi ricordi scrive: «Mi piaceva la guerra».
Mi sono perdonato da un pezzo per i tanti errori commessi in gioventù, compreso quello di combattere e veder cadere in battaglia tanti uomini, molti erano miei amici... Anche perché io sono un pacifista convinto. Però all’epoca ero giovane e innamorato della bandiera, della mia patria che consideravo sacra: combattevo solo per la Francia in cui credevo molto più di oggi... La politica mi ha profondamente deluso, in questo momento ho stima soltanto per il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Lo sport invece, il paracadutismo lo entusiasma ancora?
Molto. Ho scoperto il paracadutismo a 56 anni suonati e oggi ho all’attivo più di 2mila lanci: l’ultimo qualche anno fa. Poi dopo una brutta operazione ho dovuto smettere. Lo sport è una delle mie grandi passioni, assieme alla poesia, alla pittura e alla scultura. Nel 1959 sono stato campione di nazionale di rugby: militavo nel Racing Club de France. Ho sempre amato le discipline rischiose e infatti ora i dolori e gli acciacchi dell’età me lo ricordano... Ma non posso dimenticare l’adrenalina che ho provato nelle gare di bob o a fare il navigatore di offshore al campione del mondo Bill Wishnick. E poi adoro il circo, c’ho anche lavorato, e l’equitazione. Non a caso il mio nome deriva dal greco Philippos, «amico dei cavalli».
Il paracadute è una delle tante invenzioni del genio di Leonardo da Vinci, il personaggio impersonato che, più di ogni altro, forse ha cambiato non solo il suo percorso professionale...
Quando Renato Castellani, uno dei maestri del cinema neorealista, mi offrì il ruolo di protagonista per il film-tv La vita di Leonardo da Vinci avevo già 40 anni, e stavo per rifiutare. Venivo da letture forti sul senso dell’esistenza, tipo Sotto il vulcano di Lowry, avevo viaggiato e vissuto una vita avventurosa come il Gatsby di Scott Fitzgerald, ma le mie conoscenze sull’arte del Rinascimento si limitavano alla passione per i pittori francesi Clouet e Poussin. Ma Castellani mi convinse: «Vedrai Philippe – disse – quando finiremo di girare, tu penserai e ti muoverai come se fossi davvero Leonardo, conserverai i suoi tic per sempre». Aveva ragione.
Geniale Leroy, capace di interpretare avventurieri, artisti, ma anche papi e santi.
Ho studiato al Collegio dei Gesuiti a Montpellier e mi è servito nel cinema – sorride – . Infatti sono partito da Santo, Ignazio de Loyola, in State buoni se potete (1983, regia di Luigi Magni), poi ho fatto il Papa, Leone XIII in Don Bosco (1988, di Leandro Castellani) e ho chiuso da Vescovo nella serie tv Don Matteo.
Qual è il suo rapporto con la fede?
Sono un cattolico, molto credente. Ho perso mia madre che avevo solo sei anni e al collo da allora porto una medaglietta raffigurante la Vergine Maria: Lei mi ha sempre protetto, è stata la mia “Mamma”.
Silvia Tortora, figlia dell’indimenticato giornalista e conduttore televisivo Enzo, è la madre dei suoi due figli più giovani (ne ha avuti 5 Leroy, ndr), i ventenni Phillippe jr e Michelle.
Silvia è una donna fantastica che mi sopporta da trent’anni. Quando ci siamo sposati, nel ’90 suo padre Enzo era morto da poco (nell’88): l’ho appena sfiorato, ma ho seguito la sua vicenda giudiziaria. Tortora è stato un “martire” della cattiva giustizia, ma prima di tutto, un grande uomo che ha insegnato ai politici che per difendersi davanti a un tribunale ci si deve prima dimettere dall’incarico di deputato o senatore. Ma nessuno dei nostri politici mi pare abbia mai seguito il suo insegnamento...
Siamo partiti da Sandokan, ma “Yanez” ha più incontrato Kabir Bedy?
Per fortuna no! Siamo due uomini troppo diversi. Quando giravamo in Malesia lui si atteggiava a Dio in terra... ma dopo Sandokan voi ricordate un film di Kabir Bedi? Io no – sorride divertito – .
Cosa pensa del cinema italiano di oggi?
Non ci sono più gli attori di quando sono arrivato in Italia, si avverte il vuoto lasciato dai quei mostri di bravura come Tognazzi, Sordi, Mastroianni, Gassman... Ma ogni tanto qualche talento spunta ancora fuori. Ho visto il Leopardi e il Ligabue di Elio Germano con cui ho lavorato in Questione di karma (film del 2017, regia di Edoardo Falcone), quel ragazzo è un attore e un trasformista straordinaario. Ho sempre massima fiducia nei giovani, con la mia cooperativa di attori ho prodotto e recitato per almeno trenta registi esordienti. Ma il cinema è sempre in crisi e tanti di loro hanno dovuto cambiare lavoro... Vede, io non ho paura della morte e del Covid, scusate, ma alla mia età me ne frego... Mi preoccupa invece cosa sarà della generazione dei miei figli, perchè non so quale futuro gli stiamo consegnando. Ho solo un consiglio da dare a un ragazzo di oggi: prendi il treno che passa senza sapere dove scenderai.
Saggio Leroy, quale regalo vorrebbe per i suoi 90 anni?
Continuare a fare l’artigiano. Ho costruito con le mie mani cinque case. Nell’ultima casa, in quest’oasi di Isola Farnese – un borgo incantato sulla via Cassia – in cui vivo con la mia famiglia, non c’è un pezzo di plastica, ma tutti mobili e oggetti in legno che ho lavorato, pezzo a pezzo. Come la mia vita...