Il Palazzo imperiale a Massawa - archivio
Negli anni 60 del secolo scorso l’Eritrea non era più italiana da 20 anni. Eppure, quella che era chiamata la Svizzera africana lo era stata più a lungo di Gorizia e Trieste. Invece l’ex “colonia primigenia” - dopo la sconfitta da parte degli inglesi che subentrarono nella amministrazione nel 1941 è stata cancellata senza pietà per decenni dalla nostra cultura, dalla nostra storia e dal nostro immaginario collettivo. Nella piccola, ma vivace corrente letteraria che a partire dalla grande Erminia Dell’Oro sta riannodando i fili tra l’Italia repubblicana e gli ex possedimenti coloniali italiani in Africa orientale si inserisce Tutto quello che non abbiamo visto (Einaudi, pagine 174, euro 18,00), originale reportage di un viaggio nel paese “cornafricano” - neologismo coniato dall’autore che Tommaso Giartosio, conduttore della trasmissione letteraria Fahrenheit di Radio3 ha effettuato quattro anni fa, ai tempi in cui la pace tra Asmara e Addis Abeba dopo una guerra-non-guerra di 20 anni sembrava preludere a una possibile apertura del paese più ermetico dell’Africa.
Il quale, nonostante le trentennali promesse sempre mancate di aperture progressiste e l’alone rivoluzionario che aleggia sulla dittatura di stampo maoista del più longevo autocrate africano Isayas Afewerki, staziona permanentemente agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo e dei diritti ed è ai margini della comunità internazionale. Due premesse utili prima della lettura delle pagine di Giartosio, scritte con stile leggero in forma di epistole indirizzate all’amico fotografo Antonio Politano, organizzatore del viaggio. La prima è che l’autore non poteva sapere al tempo che quella parentesi pacifica di apertura dei confini era in realtà il preludio ad una alleanza militare contro il Tigrai, la regione etiope confinante dell’Etiopia settentrionale, che portò poi a una sanguinosa guerra dal novembre 2020 al novembre 2022.
La seconda è che i reportage di viaggio non sono saggi di geopolitica. Giartosio non tace comunque sulla repressione, sulla povertà diffusa, sul servizio civile a tempo indeterminato che inizia con l’arruolamento a 17 anni e il conseguente esodo dei giovani da città e campagne non solo verso l’Europa e gli Usa, ma anche verso Etiopia, Uganda, Sud Sudan e i paesi del Golfo. Il paese è lacerato dl punto di vista generazionale, con i più anziani sostenitori del regime e i giovani che fuggono. E ricorda giustamente che tragedie come i naufragi del 3 ottobre 2013 a Lampedusa dove perirono centinaia di eritrei sono coperti ufficialmente dal silenzio di Stato perché l’esodo rimane un tabù. Ma non è solo la situazione politica che gli italiani, come viene significativamente rimproverato all’autore da un eritreo, non hanno visto in questi decenni di amnesia.
Il libro ha l’obiettivo di indagare su altri aspetti a noi oggi ignoti e da riscoprire. Si parte inevitabilmente dall’architettura razionalista dei palazzi di epoca fascista della capitale Asmara (dal 2017 patrimonio Unesco dell’umanità), con i suoi semafori lampeggianti o spenti per risparmiare energia passando dalla meravigliosa biblioteca dei padri pavoniani che racconta la storia dell’Africa orientale italiana in un centro di educazione professionale per i disabili. Impossibile non parlare della gastronomia, dalla pizza alla pasta alle meravigliose macchine per l’espresso servito, però, con il popcorn. Perché tutto il patrimonio materiale e immateriale lasciato dagli italiani è stato africanizzato e riutilizzato, perché l’eritreo è un popolo maestro di resilienza.
Girano ancora misteriosamente vecchie Balilla, le fiat Panda o le 500 di mezzo secolo fa, si mangiano nei ristoranti le “Talite-li”, le tagliatelle e i “mocoroni” i maccheroni, italiani nell’aspetto, ma insaporiti dal piccantissimo Berberé, il bigliardo è giocato dagli anziani, ma all’eritrea, nelle strade si assiste alle gare di ciclismo, sport nazionale anche lì. Il viaggio porta nelle altre città, come Cheren e Massaua, antica perla del mar Rosso, decadente e decrepita.
Giartosio racconta a 360 gradi le storie tristi dei meticci (a partire dal padre cappuccino Protasio Delfini) la generosità del popolo accogliente e ospitale delle campagne, i giovanissimi con i capelli a spazzola e spesso colorati che contraddicono apertamente i costumi di un paese che imprigiona a vita i gay come l’autore, che si lancia in un rischioso outing impensabile in molti paesi africani. E soprattutto fa trasparire la curiosità e la gioia dell’incontro con gli stranieri, italiani in particolare in un paese chiuso ermeticamente. Alla fine il viaggio in Eritrea insegna che non conta solo riscoprire il nostro passato e i legami dimenticati con l’Africa, ma interrogarci su cosa è diventato in questi decenni senza memoria il nostro rapporto con l’Altro.