Lo scrittore cubano Leonardo Padura - Epa / Quique Garcia
«Quell’isola non la capisce nemmeno Dio e nemmeno Dio la può rimettere in sesto». Esule in Spagna da pochi mesi, il giovane e quasi-ingegnere Ramsés cerca di cimentarsi nell’ardua impresa di svelare l’enigma-Cuba alla biondissima fidanzata danese. Dopo qualche frase, però, è costretto a rinunciare. Come spiegare una società dove tutto ciò che non è illegale è proibito almeno fin quando non si trova il modo di aggirare il divieto? Come raccontare un posto dove si ruba senza essere né sentirsi ladri e dove si vive meglio senza lavorare che lavorando? Per decifrare l’alfabeto cubano occorre disimparare gli slogan, di segno opposto, che hanno cercato di appropriarsene, senza mai riuscirci. E accettare il suo comporsi in parole cangianti, sinuose, polisemiche.
Parole intimamente letterarie. Ecco perché la letteratura è la mappa indispensabile nel viaggio lungo il perimetro reale e simbolico dell’isola. Tanto più quella creata dalla penna del migliore interprete della complessità cubana, prima e dopo la Rivoluzione: Leonardo Padura. «L’arte, come diceva Gustave Flaubert, deve 'raggiungere lo spirito delle cose' ovvero riflettere i conflitti della condizione umana. Attenzione, non 'spiegarli' ma 'rifletterli': suscitare interrogativi, cioè, invece di dare risposte. Facendo tesoro di questa lezione, nei miei romanzi cerco di comprendere la realtà cubana e rifletterla piuttosto che spiegarla», afferma l’autore, in viaggio per l’Europa per presentare Come polvere nel vento, appena pubblicato da Bompiani. Un libro con cui Padura si allontana, momentaneamente, dalla saga poliziesca di Mario Conde per immergersi nei grandi nodi della cubanità. Se in Eretici e nel capolavoro L’uomo che amava i cani, di nuovo disponibile in Italia sempre per Bompiani, il tema- cardine era la libertà, in Come polvere nel vento il filo rosso è la diaspora. Di quanti sono fuggiti dalla Rivoluzione come di quanti sono scappati dal suo arenarsi nelle sacche del 'Periodo especial', seguito al crollo della 'madrina' Urss. Dei disincantati o di coloro che non hanno nemmeno avuto il tempo di incantarsi. Come Ramsés uno dei personaggi di questo romanzo corale al cui centro c’è l’esodo di un gruppo di amici che si riuniva all’Avana negli anni Ottanta. E l’emigrazione dei loro figli, i quali, in qualche modo, li faranno reincontrare. A 67 anni, Leonardo Padura abita a 'Villa Alicia', nel quartiere Mantilla dell’Avana, la casa che costruì suo padre.
Perché proprio lei, tanto radicato nella capitale cubana, ha deciso di parlare di esilio?
«Come polvere nel vento racconta la diaspora della mia generazione attraverso esperienze che ho accumulato negli anni. Noi scrittori siamo 'scrigni di ricordi': è grazie a questi ultimi che si costruiscono i personaggi. Questo romanzo è stata un’esperienza inedita. Sapevo che cosa sarebbe accaduto solo nei primi due capitoli. Poi, mi sono lanciato nel vuoto e ho scoperto il seguito mentre lo scrivevo, attingendo le memorie. Per ciò che ho visto, l’esilio è sempre un’esperienza drammatica perché implica la rottura delle relazioni sviluppate naturalmente. Quando parlo con chi è partito, ogni volta noto quanti riferimenti comuni abbiamo perso».
È per questo che ha scelto di restare a Cuba?
«Come scrittore, ho necessità dell’atmosfera, del clima, perfino delle frustrazioni della mia Avana. La felicità, si sa, è antidrammatica. Le storie più belle nascono dai conflitti, dalle contraddizioni. E Cuba ne è piena».
Nel libro lei tocca con grande schiettezza temi scomodi, dall’esilio al disincanto alle doppiezze di molti 'rivoluzionari doc'. Non è la prima volta. In L’uomo che amava i cani ha raccontato la brutalità della persecuzione staliniana nei confronti di Lev Trockij. Non ha problemi con la censura?
«Non ho mai avuto un grande problema, ma ho sempre gli stessi problemi, per impiegare un gioco di parole. A Cuba, i miei libri si pubblicano poco e male e si promuovono quasi niente o niente».
Però si pubblicano a Cuba…
«Sì. Come polvere nel vento esce ora, con una tiratura di 1.200 copie, in corrispondenza della Fiera del libro dell’Avana per Aurelia ediciones. Qualcuno accusa i miei libri di essere pubblicati a Cuba perché privi di idee politiche. Solo chi non li ha mai letti può dirlo. Le opinioni politiche più forti sulla realtà dell’isola sono contenute nei miei romanzi. Per questo, non compaio nei giornali ufficiali né vengo citato alla radio e molto di rado la tv mi menziona. È il prezzo che pago per scrivere quel che sento di dover scrivere, nel modo in cui sento di doverlo scrivere».
Il dibattito sulla libertà di espressione artistica è drammaticamente intenso ora nell’isola…
«La libertà di espressione sostiene la creazione artistica e questa deve potersi manifestare nelle opere. Non può esserci contraddizione tra ciò che si crea e ciò che si produce. Per questo, come artisti non possiamo rinunciare a uno spazio creativo libero. Ma siamo anche convinti che la libertà di pensiero ed espressione sia un diritto inalienabile di tutti i cittadini».
Dopo la primavera aperta dal nuovo corso tra Barack Obama e Raúl Castro, Cuba vive un nuovo inverno di crisi. Che cosa è accaduto?
«Gran parte del nuovo romanzo che sto scrivendo è ambientato in quello spumeggiante 2016, quando all’Avana sfilarono Obama, i Rolling Stones, Chanel… È stato un momento di grande effervescenza sociale, politica ed economica che ha spaventato il governo. In soccorso di quest’ultimo è arrivato Donald Trump che ha spento definitivamente il fermento. Poi c’è stato il Covid. Gli ultimi quattro anni siamo passati di tensione in tensione. Il risultato è una nuova ondata migratoria. Ogni giorno, i quattro voli per l’estero, partono con a bordo 1.200 persone. Gran parte non rientra. Si tratta di giovani qualificati il cui esodo rappresenta una perdita incalcolabile di capitale intellettuale».
Come immagina il prossimo futuro di Cuba, arriverà una nuova primavera?
«Piuttosto che fare previsioni, preferisco confessare le mie aspirazioni. Desidero che un giorno, a Cuba, i cittadini vivano degnamente del frutto del loro lavoro. Ora non è così. L’impiego meglio remunerato è quello del ' colero', che fa la fila per procurarsi prodotti di prima necessità da rivendere agli altri. È questo il dramma nazionale».