mercoledì 30 giugno 2021
Lo studio del cervello sembra portare alla riduzione del comportamento a fenomeno naturale Eppure questo determinismo univoco finisce per confondere piani ed elementi
Doriano Solinas, opera (particolare)

Doriano Solinas, opera (particolare) - Archivio Avvenire

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Dalla nuova edizione del saggio di Andrea Lavazza e Luca Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, che esce in questi giorni dalle edizioni Codice (pagine 288, euro 16), anticipiamo un brano dall'introduzione dei due autori.

La possibile – vera – rivoluzione delle “neuroscienze” non consiste tanto nella nuova integrazione delle diverse discipline nello studio del cervello quanto nella possibile completa riduzione – via correlati cerebrali – del comportamento a fenomeno naturale. E dunque, lo ripetiamo in quanto questione centrale, a slittamento di competenze dal dominio politico a quello scientifico. I rapporti tra neuroscienze e psicologia diventano dunque centrali nella nostra trattazione. Altrove si è sottolineato che tra le possibili-cripto accezioni del termine neuroscienze vi è quella di «nuovo e moderno modo di intendere le scienze psicologiche », ossia «la nuova psicologia è neuroscienza».

L’argomento è grosso modo quello che segue. Ogni attività mentale ha un correlato cerebrale, quindi ogni attività mentale è cerebrale, pertanto la psicologia (scienza dei fenomeni mentali) è neuroscienza. A meglio vedere, la questione è un po’ più complessa. Per sintetizzarla, limitiamoci a riprendere l’abstract di un noto articolo di Deena Skolnick e colleghi che ha analizzato l’effetto talvolta fuorviante dei “resoconti neuroscientifici” del comportamento umano: «Le spiegazioni dei fenomeni psicologici sembrano generare più interesse pubblico quando contengono informazioni neuroscientifiche. Anche le informazioni irrilevanti sulle neuroscienze in una spiegazione di un fenomeno psicologico possono interferire con le capacità delle persone di considerare criticamente la logica sottostante di questa spiegazione».

Il punto che a noi qua interessa non è tanto il tema specifico dell’articolo (l’implicazione distorsiva nel giudizio sulla bontà di una spiegazione scientifica), quanto gli assunti che esso presuppone e che nessuno ha messo in discussione. Dal breve testo riportato si evince infatti che: 1) esistono dei “fenomeni psicologici” suscettibili di interesse e spiegazione scientifica; 2) che del “fenomeno psicologico” può essere data una spiegazione con o senza una informazione neuroscientifica; 3) che tale informazione neuroscientifica in alcuni casi può essere rilevante mentre in altri del tutto irrilevante. Ossia, l’articolo implica la distinzione fenomenica dell’elemento psicologico da quello neuroscientifico. Il problema non riguarda strettamente le neuroscienze, ma qualsiasi indagine scientifica.

Facciamo un esempio. Tutte le autovetture possiedono necessariamente un colore della carrozzeria. Il colore della carrozzeria è un attributo necessario dell’oggetto “vettura”, non può esistere un’autovettura senza un colore (il correlato colore, potremmo definirlo). Da qui a sostenere che il colore è necessario e sufficiente per spiegare qualsiasi fenomeno collegato al mondo delle autovetture vi è uno iato notevole. Il colore della carrozzeria può spiegare, per esempio, i livelli di vendita di un’autovettura (informazioni rilevanti in relazione alla vettura in quanto fenomeno commerciale) ma non dire nulla rispetto a una gara di velocità (informazioni irrilevanti in relazione alla vettura in quanto fenomeno fisico). Dire che l’auto ha venduto di più perché “rosso fuoco” può avere un senso, dire invece che ha vinto la corsa perché 'rosso fuoco' pare, ci si perdoni, una sciocchezza. Insomma, in relazione a un tema così delicato come l’applicazione della scienza al diritto, occorre un atto di rigore cognitivo che ci impone di non confondere le cose (e i fatti) con i fenomeni. Il medesimo fatto di Tizio che uccide la moglie perché accecato dalla gelosia è al contempo un fenomeno biologico (il complesso dei pattern biologici e neurologici necessari per eseguire l’azione: un soggetto in coma non può uccidere nessuno…); un fenomeno psicologico (non tutti i mariti traditi uccidono la moglie: è il significato del tradimento vissuto dal signor Tizio rispetto alla moglie Caia che fa scattare la molla assassina) e un fenomeno giuridico (la legislazione di ogni specifico Stato può rendere tale fatto come giuridicamente esistente oppure no, si pensi solo ai famigerati delitti d’onore).

Tutti i piani fenomenici sono evidentemente correlati per giungere alla sentenza, ma correlati non significa confusi (letteralmente: fusi assieme). In sintesi, l’approccio qui seguito potrebbe essere ricondotto al solco della neurofenomenologia. In essa, «maniera per sposare la moderna scienza cognitiva con un approccio rigoroso all’esperienza umana», l’oggettività scientifica offerta dalle tecniche neuroscientifiche viene sempre riportata metodologicamente al metro di misura dell’esperienza vissuta in prima persona. Può stupire constatare che di tale metodo un rigoroso seguace ante litteramsia stato Benjamin Libet, uno dei padri degli studi sulla neuropsicologia dei fenomeni di coscienza: «L’esperienza soggettiva o introspettiva della presenza di qualcosa è il principale criterio dell’esperienza cosciente […] la consapevolezza, in quanto esperienza soggettiva è un termine “primitivo”, non ulteriormente definibile, con significato fenomenologico piuttosto che comportamentale». Un metodo, quello della neurofenomenologia, che pare dunque potere conciliare senza eccessive contraddizioni gli apporti rivoluzionari delle neuroscienze con il contatto mit den sachen selbst (“con le cose stesse”, come chiedeva Husserl) che dovrebbe sempre caratterizzare la vita sociale, politica e giuridica.

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