venerdì 4 ottobre 2024
Il regista Arnaud Bernard racconta le tre opere tratte dal romanzo dell'abate Prevost, in scena fino al 29 ottobre: per ognuna un diverso taglio cinematografico, dal muto a Brigitte Bardot
L'allestimento della "Manon" di Giacomo Puccini

L'allestimento della "Manon" di Giacomo Puccini - Simone Borra

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«Manon Lescaut arriva al cinema». Certo, è già arrivata. Perché sono diverse le pellicole ispirate all’Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut che l’Abbé Prevost pubblicò nel 1731. Ma ad arrivare al cinema è la Manon lirica. O meglio “le” Manon. Perché la storia della ragazza che ama lo studente squattrinato Des Grieux, ma non sa rinunciare alle promesse di ricchezza del vecchio Geronte, finendo poi per morire, deportata in America dopo l’accusa di prostituzione, ha ispirato tre compositori. «Il più noto, oggi, è senza dubbio Giacomo Puccini che scrisse la sua opera nel 1893» racconta il regista francese Arnaud Bernard che firma la regia non solo del melodramma pucciniano, ma anche della Manon di Jules Massenet, datata 1884, e della Manon Lescaut di Daniel Auber andata in scena nel 1856. Manon arriva al cinema sul palco del Teatro Regio di Torino. «Siamo partiti da Puccini per celebrare il centenario della sua morte», con il primo dei tre titoli di Manon Manon Manon, il progetto del Regio e del suo sovrintendente Mathieu Jovin che nel giro di un mese, fino al 29 ottobre, propone i tre titoli ispirati al personaggio di Prevost. Tre direttori, tre cast differenti, ma un unico team di regia, guidato da Bernard, classe 1966, francese di Strasburgo. «Ho detto subito sì – dice il regista – perché amo le sfide».

Perché, Arnaud Bernard, proprio Manon?

«Perché questo è l’anno pucciniano e Manon Lescaut debuttò proprio al Regio di Torino nel 1893. Poi perché è una storia senza tempo che ha affascinato grandi musicisti. Avevo già fatto la versione di Puccini e la Manon di Massenet, autore che Puccini adorava. Non conoscevo la Manon Lescaut di Auber, certo minore rispetto alle altre due, ma molto interessante da mettere in scena. Quando il sovrintendente mi ha chiamato ho detto sì e ho pensato al cinema».

Perché proprio al cinema?

«Perché Torino è la città del cinema. Un omaggio, dunque al capoluogo piemontese. E per intessere un legame con la mia terra ho pensato al cinema e in particolare al cinema francese di tre diverse epoche. Tre modi diversi di raccontare storie».

Quale filone del cinema francese per la Manon Lescaut di Puccini che ha debuttato martedì?

«Il Realismo poetico degli anni Trenta, quello nato dalle avanguardie e legato alla stagione politica del Fronte popolare. Il cinema di Jean Vigo, Marcel Carné e Jean Renoir. Il cinema di Jean Gabin de Il porto delle nebbie. Il primo periodo del cinema sonoro francese con tecnici che venivano dall’Espressionismo tedesco, che avevano lavorato, ad esempio, con Fritz Lang e che cercavano rifugio in Francia fuggendo dal nazismo. Un cinema tutto realizzato in studio, molto teatrale. Un cinema degli outsider come Manon e Ds Grieux che sono, nella lettura di Puccini, persone che rifiutano le regole».

Tutt’altra atmosfera, invece, per la Manon di Massenet, che debutta domani.

«La mia lettura ruota tutta intorno alla figura di Brigitte Bardot. Perché lei, per me, è Manon, quella raccontata da Massenet, in particolare. Perché quando BB entrava in una stanza tutti gli uomini si giravano a guardarla. La Bardot, comunque la si pensi, ha cambiato la società francese. Per tanto è stata vista come l’incarnazione del male per la sua libertà di costumi e per il modo in cui ha portato avanti l’emancipazione femminile. E la Manon di Massenet è così, una che lotta».

E che epoca per la Manon Lescaut di Auber?

«Quella del cinema muto perché è un’opera più ingenua delle altre, proprio come lo sono gli esordi del cinema. Siamo nello studio di Georges Méliès dove si gira un film su Manon. Il Settecento visto con il gusto del Novecento».

Quali le similitudini e quali le differenze tra le tre Manon?

«Puccini è sicuramente il più passionale. Anche il più essenziale perché concentra la vicenda in quattro scene in un flusso sinfonico meraviglioso e l’ultimo atto è un lungo duetto di poco meno di venti minuti. Massenet racconta una donna combattuta e torturata e lo fa nel doppio del tempo di Puccini, in otto scene. Auber, in perfetto stile opera comique, è più leggero nel suo racconto che unisce musica e dialoghi parlati. Tre aspetti diversi di uno stesso personaggio che, alla fine dell’ascolto delle tre opere, ci si presenta in tutte le sue sfaccettature, perché ogni compositore ha saputo catturare in aspetto della ragazza raccontata da Prevost. Le differenze, poi, sono nella musica. E io devo tenerne conto perché qualsiasi regia deve nascere dalla musica».

E quale la sfida di fare tre regie su una stessa storia?

«La sfida, la scommessa di raccontare tre storie diverse. Perché tali sono. Accettando il progetto ho chiesto di non avere un unico impianto scenico perché comunque, per il fatto che ogni compositore accenda le luci su un aspetto diverso del carattere di Manon, fa sì che ne escano tre storie diverse. In Puccini alcuni avvenimenti, come la scelta di Des Grieux di entrare in convento, sono trascurati. La sorgente è la stessa, ma le opere sono diverse, anche come evoluzione e ambientazione. Due Manon, quelle di Puccini e Auber, muoiono in America, mentre quella di Massenet su una spiaggia in Francia».

La Manon di Puccini è l’ultima in ordine cronologico, ma la più popolare…

«Oggi certamente, ma ai tempi il titolo di Massent era popolarissimo. Tanto che a Torre del Lago è conservata una lettera nella quale Puccini scrive a Massenet di voler comporre anche lui un’opera sul soggetto di Prevost, ma di volerla fare diversa, per non farne una copia».

Cos’è per lei l’opera? E cosa la regia?

«Il modo e il mondo che ho scelto per raccontare qualcosa. Per questo cerco di non fare un concerto in costume e di non usare quasi mai le proiezioni – le metto solo se sono strettamente necessarie alla drammaturgia. Oggi c’è una malattia nell’uso delle proiezioni e nel mettere sul palco ledwall, stratagemmi che servono solo a mascherare una mancanza di idee registiche. Questa deriva fa sì che i cantanti siano disabituati a recitare e quando un regista vuole lavorare sugli interpreti come attori il lavoro è davvero difficile. Certo puntare tutto sulla tecnologia è molto più facile, ma non dice nulla, non propone una drammaturgia, non offre una lettura dei un testo musicale e letterario. Il regista non può stare giù dal palco, dietro un tavolo con un microfono e dare indicazioni a distanza. Un regista deve sudare sul palco con i cantanti».


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