Web
Dalla A di Ferdinando Agnini alla Z di Augusto Zironi corre un elenco di 335 nomi che non sono solo anagrafe, ma altrettante biografie, vite vissute. Biografie che vanno a comporre il ritratto di una nazione in uno dei suoi momenti più bui: l’eccidio delle Fosse Ardeatine, rappresaglia per l’attentato di via Rasella, avvenuta ottant’anni fa, il 24 marzo del 1944. Gli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno ricostruito uno per uno i loro profili in Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza (Einaudi, pagine, euro).
Una fatica improba quella di condensare 335 biografie in poco meno di 600 pagine. Ma ancor più difficile è stato scovare notizie sulle persone comuni, entrate nella storia loro malgrado. Eppure una prima ricostruzione sulle identità delle vittime venne fatta subito da Attilio Ascarelli, l’anatomopatologo che nel luglio 1944 venne incaricato di guidare l’équipe medica della Commissione Fosse Ardeatine. Il medico, uno di primi a entrare nella cava fatta saltare dai tedeschi, aveva redatto una Breve biografia dei 320 (numero che non considerava il computo finale e i 5 uccisi in più per errore), la quale conteneva 291 schede biografiche. Queste sono però rimaste senza seguito. O meglio la memorialistica si è concentrata su poche figure significative della Resistenza (come l’alto ufficiale Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo o don Pietro Pappagallo) e allo stesso tempo si è dispersa, come scrivono gli autori in «molti rivoli». Consci dell’interesse storiografico di fornire una visione d’insieme di tali testimonianze, Palmieri e Avagliano (che hanno al loro attivo numerosi saggi sull’Italia del Novecento, in particolare nel secondo conflitto mondiale) hanno compulsato i diari e le lettere dei martiri e dei loro parenti, amici e compagni di lotta, le carte di polizia e casellari giudiziari, le schede carcerarie, i documenti raccolti dal Museo storico della Resistenza, i dati forniti dai parenti all’Associazione nazionale familairi degli italiani martiri (Anfim), gli atti del processo Kappler e molti altri dati emersi dalla profluvie di saggi, memorie e interviste uscite in questi 80 anni. Una mole di lavoro impresionante. «Questo libro è una sorta di Spoon River che ricostruisce la storia personale delle vittime, tra la cui righe si legge la storia politica, sociale, economica e culturale italiana al tempo del fascismo, dell’occupazione nazista e della guerra di liberazione».
Il proflilo di ognuno deo 335, inzia con una breve descrizione in cui il primo dato è la professione, che rende la stratificazione sociale del gruppo: militari, ingegneri, commercianti, contadini, artigiani, ambulanti, operai idealmente abbracciati nella morte con industriali. C’è anche un cantante e impegato alle Poste, Gavino Luna. Anche se la maggior parte delle persone trucidate, 195, sono originarie del Lazio, tutta l’Italia, 18 regioni, è plasticamente e tragicamente convocata in quei cumuli di cadaveri ammassati nella cava di pozzolana teatro dell’eccidio. Dell’Italia centrale sono 236 (oltre ai laziali, 11 toscani, 9 emiliani e altrettanti marchigiani, 8 abruzzesi e 4 umbri), 62 del Sud e Isole (19 dalla Campania, 18 dalla Sicilia, 13 dalla Puglia, 9 dalla Sardegna, 4 dalla Calabria e uno dalla Basilicata), mentre dal Nord venivano in 19 (7 veneti, 4 lombardi, 3 piemontesi, 2 del Friuli-Venezia Giulia e uno del Trentino Alto-Adige). A essi vano aggiunti 6 italiani nati all’estero (Austria, Egitto, Francia, Libia, Lussemburgo e Turchia) e 9 stranieri (3 polacchi, 2 tedeschi, due austriaci, un cittadino sovietico e un ungherese). Per età furono 33 i morti giovanissimi, tra i 15 e i 20 anni, 285 gli adulti tra i 20 e i 59, e 14 gli ultrasessantenni. I più giovani erano i quindicenni Duilio Cibei e Marco Di Veroli. E c’era chi, come il giovane resistente romano Orlando Orlandi Posti, aveva compiuto pochi giorni prima 18 anni in prigione. Le sue lettere dal carcere, con il titolo Roma ’44, vengono ripubblicate a vent’anni dalla prima edizione da Donzelli (pagine 128, euro 15,00, introduzione di Alessandro Portelli, interventi di Camillo Brezzi, Umberto Gentiloni Silveri e Loretta Veri).
Contenendo detenuti politici e resistenti, ebrei e civili, la lista della strage è una sorta di “summa” degli orrori della Seconda guerra mondiale. I primi – prelevati in gran parte da Regina Coeli e via Tasso - furono i due terzi del gruppo. E anche qui c’era di tutto, dagli antifascisti della prima ora ad aderenti dell’ultima ora, molti i militari e i monarchici, tra le vittime persino alcuni che erano stati fascisti convinti e di primo piano. Difficile il computo degli ebrei: 78 secondo la lista, ma che in realtà sarebbero 75. La strage si inserisce dunque nel contesto delle tante perpetrate dall’occupazione nazista contro gli ebrei e i civili. A quelle delle vittime nella cava va aggiunta la storia, emersa solo nel 1994, di Fedele Rasa, una contadina di Gaeta sfollata a Roma, che quel giorno si trovava nei paraggi per raccogliere cicoria e si è avvicinata troppo allo sbarramento predisposto dai tedeschi. Fu vittima inconsapevole, come altri civili finiti nel tritacarne solo perché si trovavano nei pressi del luogo dell’attentato di via Rasella e vennero presi nella successiva retata nazifascista. Altri caddero pure nell’immediatezza dei fatti, sotto il fuoco dei militari che spararono all’impazzata temendo ulteriori imboscate.
L’introduzione ricostruisce le ore concitate in cui autorità naziste e collaboratori fascisti (il cui ruolo viene ben evidenziato) inserirono e depennarono nomi, svuotarono celle, se la presero con antifascisti, ebrei e persone inermi, allo scopo di dare un segnale di reazione all’attacco che aveva mostrato la loro vulnerabilità nel cuore della Città Eterna. Gli autori sgombrano il campo dalle polemiche spesso ripetute (e già messe in circolo a caldo) sulle responsabilità dei gappisti, autori dell’attentato, nella morte di innocenti. In realtà, spiegano Palmieri e Avagliano, gli esecutori non furono neanche veramente cercati. «Lo stesso Kappler nel processo a suo carico spiega che la rapidità nell’esecuzione della rappresaglia risponde a due ragioni: rispettare l’ordine di Hitler di agire con una reazione esemplare entro ventiquattr’ore ed evitare che la notizia di una imminente esecuzione in massa dei detenuti politici possa innescare un’insurrezione popolare in città». L’ordine purtroppo, quando se ne venne a conoscenza tramite un proclama tedesco, era “già stato eseguito”.