domenica 18 dicembre 2022
La versione curata da Cristofori diveenta un’indagine sulla genesi dell’opera e la filosofia del poeta americano: i personaggi del poema vanno letti in chiave trascendentale, non naturalistica
Edgar Lee Masters

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Delle duecentoquarantasei liriche raccolte nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters qui in Italia abbiamo da tempo una discreta contezza, almeno dopo la storica traduzione di Fernanda Pivano (1947) e con il proliferare crescente di nuove versioni che, via via, hanno visto all’opera curatori di rilievo (Antonio Porta, Luigi Ballerini, Enrico Terrinoni, tra gli altri). Lo Spoon è un affluente del fiume Illinois, che bagna l’omonimo Stato, e dobbiamo immaginarlo bigio, avvitato da giunchiglie e canne di bambù, vagamente pescoso. Nei primi anni del secolo scorso ciondolava da quelle parti, a Lewistown per la precisione, il giovanotto Edgar che ditenziosi venterà un avvocato a Chicago «con ambizioni poetiche fino a quel momento decisamente malriposte », com’è scritto nell’introduzione alla freschissima edizione dell’Antologia di Spoon River (traduzione e commento di Alberto Cristofori, La nave di Teseo, pagine 1.200, euro 25,00). Ben presto Masters fu, però, bruciato da un’idea davvero innovativa: così nacquero i primi frammenti di un grande affresco sepolcrale, editi in prima battuta sul Reedy’s Mirror, un settimanale di St. Louis in Missouri, fra il 29 maggio 1914 e il 15 gennaio 1915. Ad aprile la silloge uscì in volume, ma la versione definitiva è quella del ’16, a cui sono aggiunti altri trentadue testi. A mo’ di prefazione c’è la famosa lirica La collina, con un incipit folgorante che illustra il progetto essenziale: «Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, / Il carattere debole, il braccio forte, il clown, l’ubriacone, l’attaccabrighe? / Sono tutti, tutti, a dormire sulla collina. // Uno se ne andò per una febbre, / Uno fu bruciato in miniera, / Uno fu ucciso in una rissa, / Uno morì in prigione, / Uno cadendo da un ponte mentre faticava per moglie e figli – / Sono tutti, tutti a dormire, dormire, dormire sulla collina». L’antefatto ce lo racconta Cristofori nella densa presentazione: «Aggirandosi fra le tombe, il poeta si chiede dove siano finiti vari personaggi, uomini e donne, di cui evidentemente legge i nomi sulle lapidi e le cui esistenze sono state segnate da fallimenti e tragedie. [...] In qualche caso la voce che parla è collettiva anziché individuale, in qualche caso il morto dialoga con un interlocutore immaginario, in qualche caso non racconta la propria vita, ma ascolta il racconto fatto da altri, in qualche caso invece di raccontare teorizza, filosofeggia, propone massime, favole morali e così via». Sullo sfondo cresce, si accorcia, troneggia, palpita la storia degli Stati Uniti da metà Ottocento fino agli inizi del secolo successivo. E se le voci sono diversissime fra loro – c’è una chiara intenzione “polifonica” –, anche gli stili appaiono variegati: si passa da toni mordaci e sen alla decadente effusione dell’io, dalla satira al sublime, dal sermo cotidianus a movimenti intimi drammatici. Nell’epitaffio numero 244 Masters scende in campo attraverso Webster Ford (un nom de plume) e svolge una meditazione sulla poesia richiamandosi al mito di Apollo e Dafne. In Trainor, il farmacista (18) è enucleata la teoria “organica” dell’amore: «Ci vuole un chimico, e non sempre basta un chimico, per dire / Cosa risulterà dall’unione / Di sostanze liquide o solide. / E chi può dire / Come gli uomini e le donne reagiranno / Gli uni alle altre, o che bambini ne verranno fuori? / Prendete Benjamin Pantier e sua moglie, / Buoni in sé, cattivi l’uno per l’altra: / Lui ossigeno, lei idrogeno, / Il loro figlio un fuoco devastante. / Io Trainor, il farmacista, miscelatore di sostanze chimiche, / Ucciso mentre facevo un esperimento, / Rimasi scapolo tutta la vita». (Come non ricordare l’imbronciato chimico del concept album di Fabrizio De André, Non al denaro non all’amore né al cielo, 1971?). L’ultimo testo della raccolta ha un «carattere teatrale »: «come la celebre scena della Notte di Valpurga del Faust di Goethe – prosegue Cristofori –, che ne costituisce il modello: nel cimitero di Spoon River (lo stesso luogo da cui la raccolta ha preso le mosse) dialogano vari personaggi, tra cui Dio, Belzebù, alcuni esseri umani, alcune entità astratte». Così, attraverso i loro discorsi, Masters ha modo di riassumere i nodi spirituali del suo libro, che toccano la filosofia schopenhaueriana e le correnti esoteriche di primo Novecento. L’Antologia di Spoon River non va collocata, quindi, in un generico zolismo naturalistico, calata cioè nel puro contesto dell’ambiente sociale tipico della provincia americana, come la critica ha ampiamente ribadito: la contiguità con Crane, London, Dreiser e l’«anagrafico tramestio» di una «frenesia identificatoria» (Ballerini) possono trarre in inganno. E Proust docet. I personaggi che popolano la poesia di Masters devono esser letti – secondo Cristofori e qui c’è la principale nota di merito di questa bella edizione – in uno slargo simbolico e universale, in forma trasfigurata, dentro l’«emblematicità» di un soggetto trascendentale. Numerosi sono i cenni alla tradizione greca e latina, all’Antico e al Nuovo Testamento. Intricato è, dunque, il reticolo intertestuale, che misura le reali ambizioni dell’autore statunitense: l’Antologia è un enorme affresco mitopoietico e, situandosi oltre il tardosimbolismo e al di qua della corrida avanguardistica, rispecchia in sostanza il panteismo spinoziano di Masters, alla sommità del quale campeggia una tenebrosa quest di spiritismo e teosofia.

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