Il lavoro al computer è spesso causa di stress - Fotogramma
Se la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, allora bisogna ammettere che non siamo messi tanto bene. Non solo noi in realtà perché la tendenza è universale, ma comunque: chi ha la fortuna di avere un impiego oggi in molti casi arriva a disprezzarlo. E spesso finisce perfino per 'ammalarsi'. È la tesi di un saggio che non può lasciarci indifferenti: Il tuo lavoro ha un senso? Un percorso terapeutico per migliorare la vita lavorativa (Sugarco, pagine 118, euro 14) firmato da Stefano Parenti, psicologo e psicoterapeuta, con prefazione di Giacomo Samek Lodovici. Quanto ci appassiona il lavoro che facciamo e quale posto occupa sulla scala dei nostri valori? E come reagire se ci troviamo in un ambiente ostile o in un ambito in cui proprio non sognavamo di finire? Sono tutti interrogativi suscitati da un testo che invita a guardarci dentro nella consapevolezza che nel rapporto con la professione si gioca tanto della nostra serenità e di quella del nostro ambiente familiare, perché come dice l’autore, «n problema al lavoro diventa anche un problema a casa, e viceversa».
La sua riflessione prende spunto da una considerazione amara dello scrittore Charles Péguy che già un secolo fa annotava come ai tempi della sua infanzia «nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi si sbuffa»
Purtroppo anche adesso è così. Lavoro nello sportello psicologico di una grande azienda e dal mio osservatorio quotidiano vedo aumentare problematiche legate all’ansia, allo stress, ai disturbi psicotici e alle dipendenze all’interno degli ambienti di lavoro. Si riconoscono facilmente i 'lamentosi', quelli che non vedono l’ora di uscire, che le studiano tutte per restare a casa in malattia, che non ne possono più del lavoro che fanno. Scorbutici, apatici o insofferenti, il tempo per loro non scorre mai, le giornate diventano lunghi calvari, le pause caffè o sigaretta sono l’unico valore degno di essere vissuto…
Ma c’è anche il rovescio della medaglia
Il polo estremo opposto è quello dei 'frenetici', i competitivi, soprattutto giovani: lavorano volontariamente dieci ore o più al giorno, fine settimana compresi, per raggiungere unicamente il successo. Sono perennemente in gara con i colleghi ma anche con le proprie aspettative molto volte gonfiate a dismisura dall’ambiente familiare e culturale in cui son cresciuti. E l’affanno per la riuscita si trasforma presto in arrivismo e carrierismo. Ma dopo tre-quattro anni al massimo, non hanno più voglia, si spengono, subentra il cinismo e la noia: è il fenomeno del burnout.
La ricetta per risolvere questa “patologia” sociale? Riscoprire l’ozio come una virtù
Lamentosi o frenetici, è un rischio che ognuno di noi può correre
Certo, e la difficoltà più grande è prenderne atto. Accorgersi di lamentarsi è difficile quando diventa un’abitudine. Ma anche chi si butta a capofitto nel lavoro fa fatica a riconoscere che sta sacrificando i rapporti umani, famiglia o amici, perché magari è stato cresciuto con l’idea che puoi realizzarti solo lavorando. Di fatto 'lamentosi' e 'frenetici' maturano una cattiva concezione del lavoro e finiscono per non amare più il loro impiego.
Ma a volte un ambiente ostile può condizionare
Sì, capita di dover convivere con i 'lupi', colleghi o capi 'difficili'. Però è la situazione in cui anche chi si sente 'agnellino' deve digrignare. Ci sono dei casi dove è necessario dire no e rispondere al capo, per far rispettare magari orari e quantità di mansioni. Il lavoro è un valore importante perché mette l’uomo sulla strada della felicità. Ma vivere di lavoro non basta. È necessario prendersi del tempo per sé stessi: famiglia, amici, sport…
Spesso però non si ha la forza per farsi rispettare
Il problema è che viviamo in una cultura 'selfista', come rilevava già negli anni Settanta lo psicologo americano Paul Vitz. Diamo eccessivo valore all’immagine che diamo di noi stessi. Tanto più oggi nell’epoca dei selfie e dei social. Siamo terrorizzati dal dispiacere gli altri. Ma dobbiamo imparare che non possiamo piacere a tutti. Bisogna saper dire di no se è giusto farlo. Altrimenti ti dico di sì anche quando dentro penso di no, cioè indosso una maschera, divento falso, ingannando prima di tutto me stesso. E poi sto male anche fisicamente.
Ma come si fa ad amare un lavoro che non è magari quello sognato da bambino?
Tommaso Moro diceva che «trovare il lavoro giusto è come trovare la propria anima nel mondo». Ma succede che ci si trova a svolgere un lavoro non proprio ideale Ciò che conta però è non dare più importanza a 'cosa' si fa rispetto al 'perché' lo si sta facendo. Essere coscienti del 'perché' vale la pena alzarsi la mattina e andare al lavoro è ciò che distingue i lavoratori felici da quelli lamentosi o frenetici. Se non si ha un motivo valido per l’impegno che il lavoro comporta non sarà possibile nemmeno appassionarsene. Come diceva Viktor Frankl: «L’essere soddisfatti del nostro lavoro dipende da noi e non dalla professione, dall’essere o dal non essere capaci di far risaltare nelle nostre opere ciò che di umanamente singolare è in noi».
Essere credenti aiuta secondo lei.
Nella mia pratica ho riscontrato che chi vive la fede quotidianamente trova una motivazione più grande che rende meno dura la fatica. Anche quando vorresti cambiar lavoro ma non hai nessuna alternativa, se credi in Dio riconosci che non ti trovi lì per caso e che c’è qualcosa di bene da cercare anche in quel posto. E lavorare per amore di qualcuno, i figli, la moglie, Dio stesso, è senz’altro diverso che recarsi al lavoro per mero senso del dovere o solo per lo stipendio.
Lei è anche padre di quattro figli. Come far capire ai più piccoli che essere laboriosi premia?
Facendo loro vedere che si lavora per diventare uomini virtuosi, temprati e giusti ma anche per aiutare chi ne ha bisogno e perché il mondo sia un luogo migliore. Anche se fai un piccolo lavoro. Anche se sei una mamma casalinga: stai contribuendo al bene del mondo.
Per lavorare bene secondo lei c’è bisogno di riscoprire l’ozio come virtù. Non è un paradosso?
'Oziare' non vuol dire essere pigri. Ma, come spiegava il filosofo Josef Pieper, l’ozio è far festa, divertirsi e riempirsi di una cosa bella: andare in montagna, partire con gli amici, leggere… Se facciamo qualcosa di bello, avremo una carica tornando al lavoro che trasmetteremo implicitamente anche ai colleghi. È come andare al cinema e vedere un bel film: il giorno dopo non vediamo l’ora di raccontarlo. Chi è stato riempito di bellezza la trasmette, perché la bellezza vuole essere condivisa.