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Alla fin fine, ogni autore che si rispetti è illuminato da una convinzione, che poi riesprime in modi e accenti diversi. Francesco Cosentino, uno dei teologi italiani di nuova generazione più ferrati e perspicaci, ha dato alle stampe qualche anno fa un libro importante, Non è quel che credi. Liberarsi dalle false immagini di Dio (Edb). Ora, grazie a ottime, abbondanti e assodate letture teologiche (che spaziano da Rahner a Duquoc, da Metz a De Lubac, ma anche ai contemporanei Collin, Dotolo e Sequeri, per fare qualche nome – letture quasi tutte maschili, se si vuol trovare un deficit in tanta colta preparazione…), Cosentino torna sul “luogo del delitto” e allarga la prospettiva: partendo da un assunto – la secolarizzazione ormai assodata, anzi galoppante – si domanda perché il nostro tempo «ha “liquidato” la domanda su Dio o tutt’al più l’ha relegata ai contorni della vita e di una religione privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia» (nota bene: si potrebbe discutere, su questo. Prendiamo la Francia, dove a messa ci va l’1.8% della popolazione. Epperò in questi giorni tra i libri più venduti in assoluto nell’Esagono c’è uno scritto di Eric-Emmanuel Schmitt che racconta il suo pellegrinaggio in Terra Santa...).
Dunque, torniamo a Cosentino e al suo nuovo lavoro: quasi trecento pagine fitte per ragionare su Dio ai confini. La rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana (San Paolo, pagine 272, euro 28,00), che si presenta come una disamina del Novecento teologico e del nostro tempo alla ricerca del perché la fede cristiana sia oggi culturalmente marginale. E, al contempo, il tentativo di rintracciare un punto da cui ripartire perché il Vangelo torni a interloquire e a inquietare gli uomini e le donne del nostro tempo. L’analisi di Cosentino va subito al cuore del problema. Usando le parole di Micheal Paul Gallagher, e che si rispecchiano in recenti scritti di Timothy Radcliffe e di Jean de Saint-Cheron, è tutta questione di immaginazione: «La gente non è ostile alla verità posta nel cuore del Vangelo ma spesso la sua immaginazione non è raggiunta dal normale linguaggio della Chiesa» scriveva il gesuita irlandese della Gregoriana, richiamato da Cosentino. «La maggior parte delle persone che ha abbandonato il regolare contatto con la Chiesa non l’ha fatto per qualche argomento intellettuale contro la fede. Essi si sono allontanati perché la loro immaginazione non è stata toccata e la loro speranza non è stata risvegliata dall’esperienza di Chiesa».
Detto in altri termini, il problema è di qua dal fiume, in casa, diremmo. E infatti il nodo è quello che la gente intende quando pronuncia o sente pronunciare la parola «Dio» da chi ne dovrebbe essere primariamente testimone e anche maestro: siamo ancora dalle parti dell’anziano uomo con barba bianca che siede sulle nuvole? Per dirla con Cosentino, siamo ancora lì, all’alternativa tra idea metafisica e una divinità che è relazione: «Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un “eccesso trasgressivo”». Il «Dio selvaggio» di cui ha parlato di recente Antonio Spadaro nel suo Una trama divina (Marsilio), insomma. Il nostro tempo, del resto, argomenta Cosentino, assomiglia a un’altra era della Chiesa, quella dei primi secoli, quando i cristiani erano un pugno di uomini infiammati da una vicenda che avevano o sperimentato di persona oppure di cui avevano sentito parlare con ardore: «La stagione più fortunata di tutta la storia dell’evangelizzazione è quella degli apostoli, i quali hanno diffuso il Vangelo in un contesto culturale, sociale e politico molto più difficile di quello dell’Europa di oggi».
E qui sembra risuonare quell’appello che, con briosa provocazione, due intellettuali francesi hanno riversato in un recente testo, Espérez! (Sperate!), edito da Albin Michel. Christine Pedotti e Anne Soupa l’hanno condensato felicemente con questa formula: «Se non ritorneremo come i primi cristiani, noi saremo gli ultimi (cristiani)». Ha ragione Cosentino a chiudere il suo vigoroso testo con un riferimento a Benedetto XVI. Alla fin fine, perché essere cristiani? Che ci si guadagna a esserlo, o si perde a non esserlo? Quando l’insignificanza raggiunge i picchi cui oggi assistiamo, la domanda torna radicale: con la sua lucida franchezza, smentendo quell’astiosa idea di sacralità ideologica che i suoi detrattori gli hanno appiccicato addosso, era lo stesso teologo Ratzinger in Introduzione al cristianesimo a rispondere con queste parole: «Il vero e autentico cristiano non è il collega di partito confessionale, bensì colui che, attraverso il suo spirito cristiano, è diventato pienamente umano». E quindi Cosentino ha ben ragione a chiedere una nuova e più fresca visione teologica, che faccia a meno delle rigidità metafisiche, rilanciando una radicale e prospettiva evangelica. Partendo proprio dall’espressione teologica basica, la parola stessa Dio.
In questo, il teologo della Gregoriana riprende il domenicano Albert Nolan, per provare ad affermare che dovremmo ripartire da zero: «Il nome di Dio è stato usato così impropriamente e in modo tanto distorto che qualche volta penso che potrebbe essere meglio ricominciare con un nuovo nome». E in tal senso, una fede che guardi sinceramente all’oggi non può prescindere da una dimensione corporea, carnale, finanche fisica: «Questo tempo ci interroga: una fede incapace di parlare ai sensi dell’uomo, di suscitare domande e promesse che tocchino anche la dimensione affettiva-esistenziale, di toccare l’ordine del cuore che è una grammatica di riferimento del vivere odierno, è ancora una fede credibile?». L’interrogativo di Cosentino andrebbe preso sul serio, nel riformulare una liturgia che appare quanto di più disincarnato dal quotidiano esista, nel ripensare una proposta catechetica esangue e anonima, nell’avere la consapevolezza che nel tempo delle passioni tristi l’ardore evangelico della carità può ancora interrogare e suscitare domande sul «chi te lo fa fare».