L’“Allegoria della clemenza” dipinta da Giorgio Vasari e Marco da Faenza a Palazzo Vecchio
È uno degli esempi di ospitalità e di clemenza più noti della letteratura universale: Le supplici di Eschilo, in cui le protagoniste femminili della tragedia, le cinquanta figlie di Danao, fuggono dall’Egitto per evitare un matrimonio combinato di tutte loro con altrettanti cugini. E approdano ad Argo, alla corte di re Pelasgo, invocando accoglienza: in caso contrario si toglieranno la vita. Senza nessuna tutela – oggi si potrebbe dire sans papiers – invocano protezione e la ottengono da parte del sovrano, il cui giudizio benevolo viene avallato dall’assemblea del popolo della città greca. Così le Danaidi trovano rifugio. «Innegabile – commenta Francesca Rigotti nel suo nuovo saggio, Clemenza (il Mulino, pagine 132, euro 12,00) – è il legame del tema della supplica con quello dell’andare, come innegabile è il legame del tema della clemenza con il piegarsi e l’inchinarsi. Il supplice va, va a supplicare, a toccare le ginocchia, e intanto fugge, fugge da una situazione insopportabile».
Altrettanto supplici sono i vecchi e i bambini di Tebe nell’Edipo re di Sofocle: si rivolgono al loro sovrano, seduti sui gradini della reggia con in mano ramoscelli d’ulivo, perché li liberi dalla pestilenza. Edipo riuscirà nell’intento, ma il successo coinciderà con la sua condanna. Ed è a questi supplici tebani che si ispirò Charles Péguy, in un testo scritto nel 1905, due anni prima della sua conversione al cristianesimo, quando ancora era imbevuto di ideali socialisti. Lo intitolò I supplici paralleli, operando un confronto fra l’episodio raccontato da Sofocle e la grande adunata operaia di San Pietroburgo del 9 gennaio 1905: sospinta da condizioni di vita sempre più misere, la folla guidata da un prete si radunò davanti al palazzo dello zar Nicola II per reclamare più giustizia sociale. Il risultato fu una carneficina, tanto che quel giorno venne chiamato “la domenica rossa”. Nel suo articolo visionario il grande scrittore francese capovolse il comune modo di vedere la posizione del supplice. Non si tratta di qualcuno che si inginocchia umiliandosi: «Un supplice è sì qualcuno che si piega – rileva Rigotti – ma non davanti a un altro uomo, quanto alla disgrazia. Invisibilmente le posizioni del supplice e del supplicato si invertono. Così il supplicante sta sopra, è superiore a colui cui la supplica è rivolta. Il supplicato è grande e potente, ma il supplice ha una potenza superiore perché rappresenta qualcuno».
Nel suo gustoso libretto la studiosa ricapitola le opere più significative dedicate alla clemenza, che non è – spiega nell’introduzione – l’invito a un generico essere buoni, quanto all’espressione di umanità e misericordia. Solitamente considerata come l’inclinazione da parte di chi detiene il potere a non maltrattare chi è considerato inferiore, o si trova nelle condizioni di palese subalternità, la clemenza ha un significato filosofico più grande, è «una virtù morale, politica, pedagogica» che non può neppure essere confinata nell’ambito giuridico. «È la dote di chi agisce secondo equità e rettitudine, perdonando senza però rinunciare alla giustizia».
Il suggerimento più chiaro si ritrova in Seneca, precisamente nella sua operetta morale De clementia, scritta attorno al 55-56 d.C. «Clementia est inclinatio animi ad lenitatem», scrive il precettore di Nerone. Allo stesso modo Cesare era famoso per la politica di risparmiare la vita ai nemici vinti sul campo. Concetti che verranno ribaditi in altre opere dedicate a questa virtù, come Cinna. La clemenza di Augusto di Corneille del 1641 e La clemenza di Tito di Mozart, rappresentata per la prima volta a Praga nel 1791. Il drammaturgo francese si era ispirato a un apologo di Montaigne contenuto nei Saggi, in cui è la moglie dell’imperatore a invocare pietà per l’avversario che aveva ordito una congiura contro Augusto. Dice Livia al consorte: «Fa’ quello che fanno i medici, quando le ricette consuete non possono servire ne provano di contrarie. Con la severità finora non hai guadagnato nulla. Comincia a sperimentare quale risultato otterrai con la clemenza. Cinna è confesso: perdonagli».
Rigotti non si nasconde certo che la politica della clemenza nel corso della storia è stata spesso un sotterfugio dei sovrani per perpetuare il potere, ma nella sua analisi scava ancor più in profondità, accennando all’affinità della clemenza con la mansuetudine, raffigurata nell’asino simbolo iconografico per eccellenza del Christus patiens, e con la mitezza, osannata da un filosofo come Norberto Bobbio come straordinaria virtù sociale. E giunge poi a rielaborare le riflessioni sul dono e sul perdono di Jankélévitch e Derrida. Concludendo con una digressione affascinante sul tema dell’inginocchiarsi. Già nel mondo antico il ginocchio della divinità era legato alla generatività e alla clemenza. Commenta l’autrice: «La giustizia del ginocchio rientra nell’immagine della giustizia di Simone Weil perché rappresenta la clemenza, in quanto al ginocchio lo sventurato, a sua volta inginocchiato, può aggrapparsi e implorare. Via la benda che non vede la sventura, via la spada della violenza, via i bracci della bilancia sostituiti dai bracci della croce di Cristo, vista come la leva per sollevare la terra al cielo, Simone Weil avrebbe riconosciuto nel ginocchio piegato un simbolo della giustizia accettabile, giacché per lei la discesa, l’abbassarsi ad ascoltare lo sventurato è la condizione dell’ascesa». La filosofa francese rileggeva l’Iliade e i Vangeli come emblema della misericordia in un mondo dominato dalla forza, e i suoi erano gli anni del nazismo. Gli hikétides del nostro tempo non sono forse gli sventurati che fuggono dalla guerra e dalla miseria e bussano alle nostre porte?