Marsilio Ficino in un’incisione settecentesca - WikiCommons
«O felici seculi e quali questa divina copula della sapientia et religione spetialmente appresso gli Ebrei et christiani conservasti intera! O seculi finalmente troppo miseri, quando la copula di Pallade et di Themis si disciolse! O quanto fu questo miserabil caso!» avverte Marsilio Ficino in Della christiana religione mandata alle stampe in 'lingua thoscana' nel 1474 e solo successivamente in latino. Soltanto un errore di parallasse induce lo sguardo a scorgere nell’Umanesimo il fiorire di tempi rosei e solari, traboccanti di speranza e fiducia. Furono tempi di crisi, invece, un secolo di ferro dove al tramonto di un mondo difettava ancora la luce di una nuova epoca. E di questo Ficino era ben consapevole. Alla ridefinizione del carattere di questi attesi tempi nuovi il filosofo fiorentino profonde ingenti energie lungo tutto il corso della vita che corre dal 1433 al 1499, un periodo turbolento per la sua Firenze, l’Italia e l’Europa. Per restituire a Marsilio Ficino la meritata importanza nella storia del pensiero filosofico europeo e sottrarlo all’abbraccio di chi lo riduce a semplice filologo e traduttore, Raphael Ebgi, docente di storia della filosofia all’Università Vita-San Raffaele di Milano, continua il suo meritorio scavo in quella miniera inesauribile che fu l’Umanesimo italiano, curando una straordinaria raccolta di testi del pensatore toscano, Anima mundi. Scritti filosofici (pagine 600, euro 85,00), pubblicata nel 'Millennio' al lui dedicato da Einaudi.
La traduzione delle opere di Platone, Plotino, Proclo, Ermete Trismegisto, Giamblico, Prisciano, Sinesio, della Mistica teologia e dei Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, anzi per Ficino proprio quel Dionigi l’Areopagita, e poi il commento incompiuto alle lettere di san Paolo non sono un mero esercizio intellettuale. Riportare alla luce le parole degli antichi, per il fondatore dell’Accademia platonica della Firenze medicea, non significa fornire un contributo intellettuale a una inedita corrente di pensiero o al rinnovamento delle arti. Pensiero e fatiche di Ficino intendono invece restituire voce a profeti e sapienti di un’età dell’oro di cui si è persa traccia ma capaci ancora, se ascoltati, di rinnovare le menti, e, con le menti, i tempi. Solo così è possibile contribuire a definire i tratti di quel nuovo della cui nascita gli umanisti restano in attesa. Grazie alla parola degli antichi e alla ricostruzione dell’aurea catena che da Zoroastro, Ermete Trismegisto risale fino a Platone e si completa e compie nel cristianesimo, la rinascita diventa possibile e Firenze, fugati i tumulti della contingenza, può ambire a diventare una nuova Atene. Senza il sostegno di Cosimo de’ Medici e di Lorenzo il Magnifico, la nuova accademia non avrebbe potuto contribuire al sogno di riforma (peraltro non solo individuale ma suggellato dalla coralità degli umanisti) che anima la fatica di Marsilio Ficino. In guisa di un novello Orfeo, così lo apostrofa Angelo Poliziano, «ma di successo», precisa Ebgi, Ficino tesse in un’unica tela parola poetica, parola teologica, filosofia e progetti di riforma politica.
Tutto si tiene nel suo cammino di pensiero, la cui ambizione è di ricomporre quanto nel corso dei tempi è stato separato. Pensando anche sotto la guida di Cavalcanti e di Dante, il quale «benché non parlassi in lingua greca con quel sacro padre de’ philosophi interpetre della verità, Platone, nientedimeno in ispirito parlò in modo con lui che di molte sententie platoniche adornò e libri suoi», il Ficino opera perché «intra la sapientia et la religione è grande propinquità». Cade, dinanzi al recupero dell’unità di filosofia e fede, anche la separazione tra contemplazione e azione perché «la frequente lectione delle cose divine – continua Ficino nel Della christiana religione – sia a’ governatori delle republiche molto conveniente, imperoche sapete che ’l governo terreno alhora e optimo et felicissimo, quando col favore del re del cielo si drizza allo exemplo del regno celeste». Non a caso «tutti i legislatori hanno in parte imitato, come scimmie, Mosè, verissimo autore delle leggi divine, e in parte, non so in che modo, spinti dalla verità, hanno affermato di aver ricevuto le leggi da Dio, sotto vari velamenti» scrive Ficino a Ottone Nicolini nel 1462 o nel 1463, ringraziandolo per averlo indotto a tradurre le Leggi di Platone. Esse mostrano, secondo Ficino, come la giustizia decade a ingiustizia se non sostenuta da «Adrastea la divina provvidenza, in quanto nulla si sottrae al suo sguardo e nulla può sfuggire dalle sue mani». È evidente che «una città – prosegue il fiorentino nella stessa missiva – abbia più bisogno di uomini ottimi e di giuristi, che di mercanti o di medici. Perché quanto più l’anima è superiore al corpo e allo spirito, e la vita eterna a quella temporale, tanto più Minosse ha giovato ai Greci di Galeno. Il commercio infatti è il corpo di una città, la medicina il suo spirito, la legge la sua anima». Solo tramite le «leggi dell’amicizia – afferma Marsilio Ficino nell’esegesi della Repubblica platonica – le quali comandano che le cose siano comuni tra gli amici, affinché, eliminate la divisione e la causa della divisione e della miseria, si possa conseguire concordia, unione e felicità»