Ma è il monumento dei nostri difetti di Ugo VolliI monumenti sono segni, naturalmente. Ma nei casi più notevoli sono anche sintomi nel senso medico del termine: indizi importanti su come la collettività si rappresenta e si tradisce allo stesso tempo, espressioni del suo stato di salute collettivo, lapsus rivelatori. Il Vittoriano non fa eccezione. Dieci anni appena dopo la conquista di Roma e il trasferimento della capitale, nel pieno di una crisi sociale acutissima, mentre il nuovo Stato fatica terribilmente a organizzarsi, viene lanciato il grande concorso internazionale per celebrare con un monumento il re del Risorgimento appena scomparso (dal suo nome, Vittorio Emanuele, non da quello di una qualche vittoria viene il nome dell’opera, che peraltro non è neppure «altare della patria» come oggi si dice confondendo la parte – cioè la tomba del Milite Ignoto – con il tutto). All’appello del concorso internazionale le risposte sono entusiaste – centinaia di progetti da tutto il mondo – e megalomani, irrealistiche, impossibili, tanto che si lancia un secondo concorso solo nazionale con criteri più stretti; il risultato del quale è però quasi altrettanto megalomane: al di là di ogni giudizio estetico, è un fatto che il Vittoriano è probabilmente il più grande monumento «puro» del mondo, il solo oggetto puramente dimostrativo ad avere le dimensioni di una collina. Il mausoleo di Mao e quello di Lenin sono minuscoli al confronto e così la statua della Libertà. Per trovare paragoni bisogna pensare a grattacieli, fabbriche, ossari di massa. Di più, il Vittoriano, col suo bianco abbagliante nel bel mezzo di una città color mattone, rosso, ocra, scura di travertino di pini marittimi e di mura romane, spicca ancora di più e proclama squillante la propria algida presenza: impossibile ignorarla. Possiamo aggiungere che la costruzione del monumento richiese la distruzione di un quartiere medievale che nelle foto rimaste appare molto bello, la perdita di numerose tracce archeologiche, chiese e vicoli, la rottura di equilibri urbanistici antichi. E che per costruirlo furono necessari 25 anni, tantissimi anche per un monumento così imponente; parecchi dettagli furono in realtà terminati solo molti decenni dopo. Che sul piano urbanistico la sua continuazione fu quella Via dell’Impero voluta da Mussolini che distrusse definitivamente l’equilibrio fra città viva e archeologia in un luogo centralissimo di Roma, con effetti che durano ancora oggi. E, a costo di sembrare pettegoli, non possiamo non accennare allo scandalo del marmo fatto arrivare dal collegio elettorale del ministro responsabile Zanardelli.Insomma, al di là del cattivo gusto di un disegno falso antico fuori scala («bomboniera» o «macchina da scrivere», come lo chiamarono in molti) o della sua geniale anticipazione del postmoderno (basterebbe arcuarla un pochino e dipingerla a colori vivaci per ottenere la più famosa poltrona di Mendini...) i sintomi da leggere ci sono tutti. La megalomania e il culto kitsch di un’antichità da cartapesta (pardon, di marmo botticino) che afflissero poi Mussolini sono già là; e così i sospetti di corruzione, e soprattutto il disprezzo per il patrimonio archeologico, la voglia arrogante di imporre alla città il proprio segno a costo di uno stupro (in questo in realtà siamo largamente superati dai francesi e dai tedeschi, ma questo è un altro discorso). Ma questo segno è antiquato, marmoreo, orizzontale, pesante, pieno di capitelli corinzi e di bassorilievi, di cocchi e di statue allegoriche di città è regioni, statue equestri e pronai... Una cosa così viene inaugurata sessant’anni dopo il Crystal Palace di Londra, vent’anni dopo la Tour Eiffel, quando già a Torino era stata terminato il lentissimo cantiere della Mole Antonelliana iniziato nel 1863... Per capire l’anacronismo del Vittoriano, basta pensare che il concorso è contemporaneo all’inizio della Sagrada Familia di Gaudì, e che al momento della sua conclusione siamo già nel pieno dell’età dei grattacieli, col Woolworth Building che, con il suo "campanile", raggiunge già nel 1913 quota 241 metri. Nel Vittoriano, anche se ci piacesse il suo eclettismo falso antico, non possiamo non leggere il sintomo di un Paese arretrato, retorico, provinciale, incurante del suo patrimonio artistico, insensibile al gusto dei luoghi – tutti difetti che conosciamo bene. Di solito prima o poi ci si accomoda con le vecchie cose di pessimo gusto, ma il gesto di quel monumento è così rozzo che ancora colpisce; ed è un peccato che esso sia rimasto il simbolo dell’unità nazionale. Per fortuna il nostro Paese è anche altro e altra architettura, antica e contemporanea. Io lo vedo come un monumento ai nostri difetti, uno specchio deformante dei nostri problemi. Che abbia cent’anni e che ancora parli di noi non mi rallegra: mi spaventa.
Ma è il monumento dei nostri difetti di Ugo VolliI monumenti sono segni, naturalmente. Ma nei casi più notevoli sono anche sintomi nel senso medico del termine: indizi importanti su come la collettività si rappresenta e si tradisce allo stesso tempo, espressioni del suo stato di salute collettivo, lapsus rivelatori. Il Vittoriano non fa eccezione. Dieci anni appena dopo la conquista di Roma e il trasferimento della capitale, nel pieno di una crisi sociale acutissima, mentre il nuovo Stato fatica terribilmente a organizzarsi, viene lanciato il grande concorso internazionale per celebrare con un monumento il re del Risorgimento appena scomparso (dal suo nome, Vittorio Emanuele, non da quello di una qualche vittoria viene il nome dell’opera, che peraltro non è neppure «altare della patria» come oggi si dice confondendo la parte – cioè la tomba del Milite Ignoto – con il tutto). All’appello del concorso internazionale le risposte sono entusiaste – centinaia di progetti da tutto il mondo – e megalomani, irrealistiche, impossibili, tanto che si lancia un secondo concorso solo nazionale con criteri più stretti; il risultato del quale è però quasi altrettanto megalomane: al di là di ogni giudizio estetico, è un fatto che il Vittoriano è probabilmente il più grande monumento «puro» del mondo, il solo oggetto puramente dimostrativo ad avere le dimensioni di una collina. Il mausoleo di Mao e quello di Lenin sono minuscoli al confronto e così la statua della Libertà. Per trovare paragoni bisogna pensare a grattacieli, fabbriche, ossari di massa. Di più, il Vittoriano, col suo bianco abbagliante nel bel mezzo di una città color mattone, rosso, ocra, scura di travertino di pini marittimi e di mura romane, spicca ancora di più e proclama squillante la propria algida presenza: impossibile ignorarla. Possiamo aggiungere che la costruzione del monumento richiese la distruzione di un quartiere medievale che nelle foto rimaste appare molto bello, la perdita di numerose tracce archeologiche, chiese e vicoli, la rottura di equilibri urbanistici antichi. E che per costruirlo furono necessari 25 anni, tantissimi anche per un monumento così imponente; parecchi dettagli furono in realtà terminati solo molti decenni dopo. Che sul piano urbanistico la sua continuazione fu quella Via dell’Impero voluta da Mussolini che distrusse definitivamente l’equilibrio fra città viva e archeologia in un luogo centralissimo di Roma, con effetti che durano ancora oggi. E, a costo di sembrare pettegoli, non possiamo non accennare allo scandalo del marmo fatto arrivare dal collegio elettorale del ministro responsabile Zanardelli.Insomma, al di là del cattivo gusto di un disegno falso antico fuori scala («bomboniera» o «macchina da scrivere», come lo chiamarono in molti) o della sua geniale anticipazione del postmoderno (basterebbe arcuarla un pochino e dipingerla a colori vivaci per ottenere la più famosa poltrona di Mendini...) i sintomi da leggere ci sono tutti. La megalomania e il culto kitsch di un’antichità da cartapesta (pardon, di marmo botticino) che afflissero poi Mussolini sono già là; e così i sospetti di corruzione, e soprattutto il disprezzo per il patrimonio archeologico, la voglia arrogante di imporre alla città il proprio segno a costo di uno stupro (in questo in realtà siamo largamente superati dai francesi e dai tedeschi, ma questo è un altro discorso). Ma questo segno è antiquato, marmoreo, orizzontale, pesante, pieno di capitelli corinzi e di bassorilievi, di cocchi e di statue allegoriche di città è regioni, statue equestri e pronai... Una cosa così viene inaugurata sessant’anni dopo il Crystal Palace di Londra, vent’anni dopo la Tour Eiffel, quando già a Torino era stata terminato il lentissimo cantiere della Mole Antonelliana iniziato nel 1863... Per capire l’anacronismo del Vittoriano, basta pensare che il concorso è contemporaneo all’inizio della Sagrada Familia di Gaudì, e che al momento della sua conclusione siamo già nel pieno dell’età dei grattacieli, col Woolworth Building che, con il suo "campanile", raggiunge già nel 1913 quota 241 metri. Nel Vittoriano, anche se ci piacesse il suo eclettismo falso antico, non possiamo non leggere il sintomo di un Paese arretrato, retorico, provinciale, incurante del suo patrimonio artistico, insensibile al gusto dei luoghi – tutti difetti che conosciamo bene. Di solito prima o poi ci si accomoda con le vecchie cose di pessimo gusto, ma il gesto di quel monumento è così rozzo che ancora colpisce; ed è un peccato che esso sia rimasto il simbolo dell’unità nazionale. Per fortuna il nostro Paese è anche altro e altra architettura, antica e contemporanea. Io lo vedo come un monumento ai nostri difetti, uno specchio deformante dei nostri problemi. Che abbia cent’anni e che ancora parli di noi non mi rallegra: mi spaventa.
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