mercoledì 26 gennaio 2011
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Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti, da 20 mesi segretario del Partito socialista unitario – ultimo frutto di una storia continua di scissioni  tra riformisti, massimalisti, comunisti – pronuncia alla Camera un forte discorso denunciando le intimidazioni, le violenze, i brogli con i quali il «listone» di Benito Mussolini aveva vinto le elezioni politiche. Pochi giorni dopo, l’11 giugno, il deputato socialista sarebbe dovuto intervenire sul bilancio dello Stato. Nel corso dell’anno Matteotti era uscito clandestinamente dall’Italia e aveva raggiunto l’Inghilterra; lì aveva ottenuto informazioni e documenti sulle forniture petrolifere del nostro Paese, che coinvolgevano autorevoli esponenti del partito. Ma il 10 giugno il parlamentare veniva rapito e il suo corpo ritrovato solo 66 giorni dopo. Una pagina nerissima nella storia del nostro Paese («Un evento che commosse tutto il mondo civile», affermava don Sturzo) che la copiosa ricostruzione storica non ha finora chiarito del tutto. Fu un movente politico o uno affaristico all’origine del delitto? Volutamente, lo storico Giampaolo Romanato (nativo di Fratta Polesine, lo stesso paese di Matteotti) non ha affrontato questo capitolo della storia di un leader politico che «capì la natura del fascismo prima e meglio di tutti e il fascismo non glielo perdonò», ma ha compiuto un esauriente viaggio nella vita e nel mondo dell’esponente socialista che gli si è rivelato Un italiano diverso (Longanesi, pp. 330, euro 16,50), fuori dagli stereotipi e dal mito costruiti attorno a lui. Quella di Matteotti era una famiglia con tanti beni al sole. Il padre era morto nel 1902 (dei sei figli, Giacomo – nato nel 1885 – sarebbe stato l’unico sopravvissuto) e alla sua fortuna erano legate voci di arricchimento dovuto a pratiche usuraie (anche il settimanale cattolico Il Popolo le avrebbe riportate più volte). «La raggiunta agiatezza consentì a Giacomo di vivere di rendita, senza mai esercitare l’avvocatura (si era laureato a Bologna), con abitudini dispendiose e decisamente alto borghesi, villeggiatura in montagna, frequentazione dei migliori alberghi, lunghi viaggi in Europa». L’adesione al partito socialista in forte crescita nel Polesine che, a cavallo tra i due secoli, «non era più la plaga abbandonata di un tempo, ma si stava trasformando in un ribollente laboratorio sociale» si trasforma gradatamente in un impegno a tempo pieno. Il suo socialismo è teso a far crescere dal basso una nuova classe politica attraverso la scuola, che sente «come luogo di formazione del popolo», l’attività nei Comuni e l’organizzazione delle leghe contadine, che preferisce ai circoli del partito, spesso rissosi. Il suo – nota Romanato – è «un riformismo singolare, impastato di legalitarismo e di spirito rivoluzionario». Quando scoppia la guerra, Matteotti chiede che l’Italia rimanga fuori dal conflitto e propone – in dissenso con Turati – «una insurrezione popolare» per evitarlo. Subisce denunce, arresti, processi (la Corte di Cassazione lo proscioglierà), ma viene mandato al confino a Messina. Nel 1912 conosce Velia Titta, sorella del più celebre baritono del tempo, Ruffo Titta. Il matrimonio, 4 anni dopo. Il fitto epistolario tra i due – 449 lettere di Giacomo e 214 di Velia, quelle rimaste – rivela una relazione che sorprende: «Tutto li divideva. Lei non era socialista, era una fervente cattolica, non aveva alcun interesse per la politica…»; vivono per lungo tempo separati in città diverse. «Eppure – osserva lo storico – le lettere attestano un rapporto fortissimo, un amore senza fine, un disperato bisogno l’uno dell’altro». Nel 1919 Matteotti riprende a pieno l’impegno politico. Le elezioni segnano il trionfo dei socialisti. Le politiche con la proporzionale fanno del Polesine la provincia più rossa d’Italia e Matteotti è eletto deputato. L’anno dopo tutti i 63 Comuni della provincia sono conquistati dai socialisti; e il partito ottiene 38 seggi su 40 nel Consiglio provinciale. I popolari, guidati da Umberto Merlin, uno dei fondatori del partito, ottengono un discreto risultato ma nulla di più. Tuttavia l’egemonia socialista s’accompagna a un crescere di violenze e di sopraffazioni, provocando la reazione altrettanto violenta dei fascisti che, nel giro di soli due anni – alle politiche del 1921 – diventano la prima forza politica. Il Polesine, in anticipo sul resto del Paese, è l’epicentro di una lotta mortale tra socialisti e fascisti (che non risparmierà nemmeno i popolari, come prova l’aggressione all’onorevole Merlin, salvato proprio da Matteotti). Il leader socialista il 21 marzo 1921 viene aggredito violentemente e rapito a Castelguglielmo, decide allora di lasciare Fratta e la provincia. Matteotti paga l’ambiguità delle sue posizioni («Riformista nell’animo, rivoluzionario nelle apparenze» lo definisce Il Popolo, mentre il fascista Finzi lo accusa di essere «ultracollabo-razionista a Montecitorio e internazio-nalista e rivoluzionario in Polesine»). «Da estrema possibilità rivoluzionaria, l’uso della violenza è derubricato in Matteotti a solo strumento di difesa». Parlamentare (i suoi discorsi a Montecitorio occupano due volumi di quasi mille pagine) e segretario del partito, nella lotta contro il fascismo sottolinea due punti chiave: la necessità di creare convergenze con le forze politiche, come i popolari, disposti a difendere la legalità dello Stato, e la difesa strenua del Parlamento. Ma il 10 giugno 1924 il suo impegno sarebbe stato troncato.
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