Enzo Cucchi, “A terra d’uomo” (particolare) - Giorgio Benni/Maxxi
Sono almeno tre le ragioni che spingono a definire come “eccezionale” l’affascinante mostra che il MAXXI di Roma – ossia il Museo delle Arti del XXI secolo – dedica ad Enzo Cucchi definito “poeta e mago” nel sottotitolo (fino al 24 settembre). La prima, fatto raro, è stata la presenza dell’artista alla preview per la stampa. Carismatico nel suo essenziale abito nero, ha ringraziato prima il museo nel su complesso, poi Alessandro Giuli (Presidente del MAXXI), Bartolomeo Pietromarchi (Direttore del MAXXI), Luigia Lonardelli, curatrice insieme al primo dell’evento, nonché tutti i presenti, con poche parole culminate nella frase: «Non devo dire niente». Un’asserzione che sottintende l’idea che parlano le opere. Il secondo motivo che testimonia di questa eccezionalità sta nel fatto che l’esposizione, allestita al secondo piano del Museo, si apre con una vera selezione dei libri della biblioteca di Enzo Cucchi. Un’occasione, anche questa, più unica che rara, grazie alla quale, come ha spiegato bene Luigia Lonardelli, si ha l’opportunità di sbirciare nelle pieghe più intime della creatività dell’artista.
Se mi si concede la citazione di un altro esempio chiarificatore e significativo, sarà bene ricordare che l’idea di un Caravaggio istintivo e ignorante tramontò del tutto quando Riccardo Bassani e Fiora Bellini pubblicarono nel 1993 due documenti inediti relativi al sequestro per debiti delle “robbe” conservate dal Merisi nello studio di vicolo San Biagio a Roma, dove furono trovati dodici libri. Non sappiamo, purtroppo, quali testi fossero; a differenza di quelli di Enzo Cucchi che si possono addirittura sfogliare, per constatare che gli interessi dell’artista spaziano da Plutarco (Le vite parallele) a Jack Kerouac (Big Sur, il romanzo autobiografico dello scrittore statunitense morto per gli stravizi, di cirrosi epatica), vanno da Seurat al Victor Hugo pittore (grande almeno quanto il romanziere), per arrivare a Modigliani e a Monet, fino al Sogno di Polifilo Prenestino. È questo un saggio storico di Maurizio Calvesi con cui ipotizzava (secondo me a ragione, nonostante le osservazioni sulle inflessioni venete del testo sottolineate dai suoi detrattori) che il quattrocentesco Francesco Colonna autore del poema stampato da Aldo Manuzio nel 1499 fosse, in realtà, il principe di Palestrina.
Allora, con lo sguardo a questo spicchio di biblioteca, risulteranno più chiare le trame che costituiscono il canovaccio su cui si costruisce l’arte di Enzo Cucchi, come la dimensione etnica, certo figlia di letture come Storie del folklore in Europa scritto nel 1952 da Giuseppe Cocchiara. Si capiranno meglio, però, pure aspetti pittorici come quelli che hanno guidato la stesura ad olio del lenzuolo stropicciato (quasi un trompe l’œil) di un’opera come Tette (da considerarsi un ripensamento del mito di Venere e Marte), dipinto nel 2015 con una tecnica assunta da letture come Airbrush Art in Japan, uscito nel 1988, che offre una panoramica su artisti iperrealisti giapponesi come Kazuaki Iwasaki o Shuji Tanase. La terza ragione per la quale l’esposizione dedicata al maestro marchigiano è eccezionale, risiede nella constatazione che non è una mostra o, meglio, è un’anti-mostra nel senso che non ci troviamo davanti a un’esibizione, ma a una serie di appunti sommessi (e potenti) che lo stesso Cucchi ha dipanato negli spazi organici di Zaha Hadid, sicché la stessa sequenza delle opere è un’opera.
Infine, c’è la genialità dell’artista marchigiano che pulsa dalle pareti dello spazio espositivo, ma pure dalle pagine del ricco catalogo (bilingue) pubblicato da 5Continents Edition, con testi di Valerio Magrelli, poeta e francesista, Denis Viva, Mario Finazzi, Giulia Lopalco e Francesco Longo, oltre ai due curatori e al Presidente del MAXXI. L’evento sarà un punto di riferimento nel percorso critico di Enzo Cucchi, giacché l’arco cronologico, documentato da più di duecento opere, si apre con le prime come Il ciclista del 1979 che testimonia l’esordio nella corrente della Transavanguardia (insieme a Paladino, Chia, De Maria e Clemente) e si conclude con i recenti Senza titolo del 2022 che vanno dai disegni a matita, fino ai piccoli marmi scolpiti con raffinata maestria, la cui monumentalità sbilenca è metafora della creatività e della vita.