Non le piaceva essere definita «pianista», le sembrava un termine riduttivo: «Siamo musicisti, il fatto che suoniamo determinati strumenti (o dirigiamo) è solo un particolare». La Judina, una dei più grandi pianisti del Novecento, figura ormai entrata nella leggenda, rincorre per tutta la vita un «oltre», un «più della musica» che è in realtà il segreto del suo fascino. I suoi, infatti, non erano semplicemente dei concerti, ma una testimonianza, anzi una «sacra rappresentazione»: «Quando questa donna, dalla pettinatura liscia che le incorniciava il volto assorto, saliva sulla scena in un lungo abito scuro, austero, senza guardare nessuno, immersa nel suo mondo interiore, si sedeva al pianoforte, tergeva con un fazzoletto le mani e la tastiera e poi faceva una pausa prolungata, sembrava un rito di preparazione a qualcosa di importante, che superava i criteri di ordine puramente estetico per far emergere in primo piano un pathos morale. Proprio così venivano recepiti i suoi discorsi, la sua parola di testimonianza da ascoltatori di tendenze, gusti e vedute diversi. Si attendevano una catarsi purificatrice e non venivano delusi in quest’attesa». Un fascino a cui, secondo un racconto ormai entrato nella leggenda, non si sarebbe sottratto neppure Stalin, colpito dalla sua esecuzione di un concerto di Mozart (la Judina in realtà lo interpretava come un requiem per le vittime dei lager).A quarant’anni dalla morte, la figura di Marija Judina sta riemergendo sia in Russia, sia anche per il grande pubblico in Occidente, dall’emarginazione in cui l’aveva relegata la cultura ufficiale sovietica, timorosa della sua indipendenza di vedute e del suo temperamento indomito che la spingevano continuamente a battersi in prima linea per la libertà della Chiesa e dell’arte, le sue due stelle comete.La sua è una figura scomoda, irriducibile a schemi. Nella Russia sovietica propaganda il «clericale» Bach e i romanzi «epocali» di Solzenicyn, supera immense distanze per recarsi a confortare gli amici deportati e a suonare per loro, ad esempio per il poeta Osip Mandel’štam. Firma lettere e appelli in difesa delle libertà fondamentali, calpestate dal regime, ma fa presente ai dissidenti che senza misericordia e perdono non c’è possibilità di costruire una società realmente rinnovata. Chiede a vent’anni il battesimo (viene da una famiglia ebrea), abbracciando con convinzione l’Ortodossia, ma nei periodi più bui della vita della Chiesa, quando di fronte all’infierire delle persecuzioni la gerarchia ufficiale scende a compromessi, sceglie le comunità catacombali. Anche negli ultimi anni di vita, non rinuncia al sogno dell’unità delle Chiese, per quanto il parroco, tradizionalista e conservatore, cerchi di frenare i suoi entusiasmi ecumenici. Difende a spada tratta la musica contemporanea, l’avanguardia, ma non certo per il gusto di scioccare l’ascoltatore o di dare uno schiaffo alla tradizione: è perché ravvisa, tanto in Bach come nella musica dodecafonica, una scintilla dello Spirito. «La musica contemporanea, ad esempio Šostakovic – dirà – è il grido disperato dell’umanità contemporanea, sul punto di perire; ma la disperazione è la soglia che fa presentire il pentimento, il ritorno tra le braccia del Padre». Sulla lettura dell’avanguardia in chiave religiosa, cristiana, non teme di polemizzare con le decine di corrispondenti – compositori, critici musicali, interpreti – che nonostante le restrizioni cui è sottoposta (non metterà mai piedi fuori della cortina di ferro), ha in tutto il mondo. E sul piano personale dimostra una generosità incredibile, esagerata, una vera follia evangelica che la spinge a mettere in mano ad un’occasionale compagna di viaggio l’intera somma ricevuta dall’incisione di un disco, perché quella si comperi una mucca, di cui le ha detto di aver bisogno per mantenere i figli. Vive in una povertà tale da non essere in grado neppure di acquistarsi un pianoforte: ne noleggia uno con il perenne incubo di doverlo restituire per mancato pagamento.La vita di Marija Judina è un alternarsi di trionfi e di disgrazie: talento musicale precoce, a 13 anni fa ingresso al conservatorio di Pietrogrado, a 21 si diploma a pieni voti e quasi subito vi ottiene una cattedra e il titolo di professore. Nel 1929 il debutto trionfale a Mosca, nel 1930 la cacciata dal conservatorio di Leningrado in quanto «elemento reazionario e clericale»; poi il lavoro frenetico negli anni di guerra, quando suona pressoché quotidianamente alla Radio e si reca addirittura al fronte, nella Leningrado stretta d’assedio, per offrire il suo contributo all’eroica resistenza del popolo; si scontra con nuovi ostracismi nel dopoguerra, quando nel clima della guerra fredda cominciano le campagne contro il «formalismo» e il «cosmopolitismo» anche in campo musicale. I suoi concerti si riducono a sei o sette all’anno, al massimo, e nel 1960 viene estromessa dall’insegnamento anche a Mosca.Ma tutto questo per lei ha un’importanza solo relativa. La sua vita ha realizzato lo scopo che si era prefissa: «Ho cercato per tutta la vita l’Incarnazione della Verità nell’uomo, nell’arte e nella vita. E con l’aiuto di Dio l’ho trovata». Il suo è uno struggimento per la bellezza, come l’avrebbe definita padre Vsevolod Spiller al suo funerale – non una «categoria estetica ma l’energia di Dio, l’energia della gloria di Dio, la gloria dell’energia di Dio che trasfigura il mondo… un varco che si apre su un altro mondo, su un’altra realtà più grande, il mondo della realtà, della grazia di Dio».