venerdì 11 novembre 2022
La città belga è al centro di enormi trasformazioni che ruotano attorno al recupero del lungofiume della Schelda aprendosi su parchi e nuove aree abitative con edifici freddi come cliniche sanitarie
Il Palazzo di Giustizia progettato da Richard Rogers ad Anversa

Il Palazzo di Giustizia progettato da Richard Rogers ad Anversa - -

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La nuova Anversa ha a Sud un polmone che respira l’aria delle grandi trasformazioni indotte dalla cultura del verde e della sostenibilità, accompagnata da un alacre immobiliarismo che pratica una estetica trendy, vagamente igienista, ma fedele al culto della ricchezza. Esiste un Sud vecchia maniera, il cui cuore è il Museo Reale di Belle Arti che ha recentemente riaperto i battenti dopo dieci anni di ammodernamenti che ne hanno raddoppiato la superficie espositiva; e c’è un nuovo Sud che si raggiunge camminando di fianco al fiume di Anversa, la Schelda, che oggi si mostra anch’esso rinnovato dopo che sono state recuperate le banchine arricchendo gli stimoli turistici per la passeggiata sul lungofiume. Da qui si raggiungono i vari parchi e si scopre una città completamente diversa nei segni, nelle forme e negli spazi rispetto all’abitato storico connotato da un’architettura antico regine, e poi liberty e decò, con innesti di modernismo. Una città, anche nel nucleo storico, punteggiata da interventi nuovi, con le classiche finestre distese che catturano più luce possibile, qualche volta a nastro, secondo il razionalismo europeo di marca olandese e francese, ma in ogni caso rispettoso di altezze e ritmi, di volumi e linguaggi che si misurano uno sull’altro. Il nuovo Sud è tutt’altra cosa da quello vecchio: a parte le solite archistar che sgomitano per farsi notare (vedi l’edificio disegnato da Zaha Hadid per la capitaneria di porto, l’ultimo prima della prematura scomparsa, sorta di nave caduta sul tetto dell’antico edifico: Frank Gehry, quando disegnava edifici a forma di pesci e affini in perfetto stile neopop (prima della svolta Bilbao), almeno conferiva ai simboli kitsch che tanto piacciono alle masse un carattere ironico che divertiva. Altri tempi rispetto a questa nave arenata in porto un po’ troppo in alto, quasi fosse una nave volante per nuovi argonauti, ma i greci antichi avevano ben più poetica immaginazione).

A parte certi esibizionismi, segno di una libertà ormai fuori da ogni controllo, la parte nuova ha schemi seriali basati su griglie che si replicano in facciata e in pianta (anche questa è una ricetta del tardo Ottocento e primo Novecento applicata a New York, che Rem Koolhaas aveva ripercorso in un celebre saggio intitolato al delirius). Ogni intervento funge, come si dice oggi, da hotspot, cioè una sorta di biglietto da visita del futuro e delle sue linee trendy nel segno di internet. Ti trovi dentro uno di questi quartieri, belli, elegantini, gelidi come la morgue, cementi lisciati, pietre costose e marmi, materiali compositi di nuova generazione, molto vetro – anche ad Anversa si dà la caccia al sole e alla luce per più ore possibili – e senti che qualcosa ti ricorda Milano. Il primo pensiero, quasi una sorta di messaggio subliminale, è questo: se c’è un Bosco verticale, prima o poi si piegherà come il gigante buono e da qualche parte farà scendere un suo simile. Si tratta di filiazione diretta: il brand è quello ormai, e arriva fino a Dubai, se è per questo. Edificio doc, Boeri autentico, anche ad Anversa. Poteva essere diversamente nella città della Boerentoren, che nel 1932 con i suoi 96 metri d’altezza vantò il primato di più alto grattacielo d’Europa? Ad Anversa la Lega dei Contadini, potentissima associazione, è appunto la Boerenbond. E del resto i boeri sudafricani erano coloni che venivano in buona parte dalle Fiandre. Insomma, l’architetto Stefano col suo cognome sembra quasi giocare in casa ampliando l’idea del suo modello di grattacielo con le foglie (l’albero di trenta piani quando il ragazzo della via Gluck cantava: «Nuda sulla pianta / Prendevi /Il sole con me», ma qui tutt’al più ci si deve accontentare del solarium domestico dei loculi terrazza e soggiorno totalmente finestrati o aperti per far entrare più sole che si può). A seminare boschi si finisce per veder crescere Palazzi Verdi, ma a “bassa intensità”, come appunto ad Anversa, dove Boeri ha finito di costruire da poco un complesso a gradoni, con strutture prefabbricate leggere, che sui tetti vanta una novantina di alberi, migliaia di arbusti e piante (quando si dice che la vita va a rovescio: pensa un po’, in questi momenti di crisi energetica, che bolletta per pompare acqua in tutto quel verde!); l’insieme si trova all’interno del masterplan espansivo progettato da altri due italiani, gli urbanisti Bernardo Secchi e Paola Viganò.

E siamo ancora agli hotspot come metafora del sostenibile (a caro prezzo): anche qui il biglietto da visita è “viva la biodiversità”, con dodici ettari di parco nei quali campeggia la grande struttura a forma di “L” disegnata da Boeri, che si volge con un lato verso la Schelda e col resto, fra corti interne ed esterne, pubbliche e private, offre le solite funzioni per il benessere psichico e fisico: una sorta di anfiteatro, spazi che accolgono attività terziarie, angoli ricovero per biciclette monopattini e altri mezzi, attività di svago e culturali, palestre e gallerie, per non venir meno al modello di società fondata sulla vita sana e buona. Sul piano costruttivo, grandi squadri e tecnica classica a trilite che scandiscono le varie facciate, materiali chiari, un po’ di grigio, una vaga somiglianza con la nuova Milano City Life e affini. Sintesi finale: una settantina di appartamenti, per lo più di misure piccole e medie, tra i 50 e i 100 metri, ma se tanto mi dà tanto, di fronte a questa moda dei quartieri dall’estetica obitoriale e clinica uno si chiede anche quanto costerà un bilocale da topi in gabbia in una città igienista e turistica? Un milioncino per cinquanta metri di algido benessere? Non c’è stato il tempo di consultare un immobiliarista locale durante la visita al rinnovato Museo Reale di Belle Arti che mostra di essere rimasto fortemente contagiato dallo stile fosforico dove il bianco sbanca, con quell’addizione moderna che ne ha ampliato gli spazi gettando Ensor e Co. in una cella frigorifera e abbagliante…

Se il nuovo fronte a Sud (Nieuw Zuid) presenta una sintesi virtuosa di vita urbana e verde, nei parchi ti può capitare anche che i cestini dei rifiuti sospirino e ti parlino suadenti perché hai gettato la spazzatura nel contenitore giusto. Queste aree si spingono fino ai docks, le banchine meridionali della Schelda, i Zuiderdokken, in un combinato paesaggistico che rispecchia la misura e la pulizia igienista che hanno tutti i nuovi quartieri delle grandi città europee. Ci sono anche gallerie che non rinunciano allo stesso rigore formale e l’aspetto esterno è quasi identico a un burghy dietetico o a una discoteca murata che lascia trapelare ben poco della vita che all’interno si dibatte fra musica e altri sballi. Qualche vetrina, sempre spazi squadrati e bianchi, cataloghi dalla grafica nordica di design. Varchi la Tim van Laere Gallery in Joe Smolderenstraat e ci trovi il mondo fiabesco-fantasy del trentenne belga Ben Sledsens, immaginario onirico senza grassi adulterini con rincorsa alla pace dei sensi; se vuoi evadere da questo mondo edulcorato, ecco poco più in là,in Léon Stynenstraat, le gallerie Sofie Van de Velde e Plus-One con collettive di nomi noti come Duchamp, Nauman, Paula Rego, Malick Sidibé ed Ensor, gloria nazionale, del quale al Museo Reale possiedono una vasta collezione di opere, tra cui il Carnevale di Binche, festa tra le più celebrate in Belgio, che Ensor, considerando il mondo in cui viviamo, rappresenta con un’unghiata felice sulla superficie gelatinosa dell’estetica al fosforo. Più divertente, ammiccante al genio irriverente ensoriano, l’espressionismo macchiettistico di William Ludwig Lutgens che ha intitolato la sua ultima mostra alla galleria Plus-One “La mia mente è la mente di un pesce” – non riferendosi evidentemente alla durata della memoria media di un pesce, otto secondi, ma al caos fluido di segni, immagini, forme che la società di oggi produce facendone l’acqua di coltura per pesci sempre più sradicati dalla realtà.

Tutto è nuovo ad Anversa, o lo sta per diventare. Si distacca dall’estetica al fosforo, ricongiungendosi per un attimo con il tracciato della città storica, il Palazzo di Giustizia costruito da Richard Rogers – che mezzo secolo fa con Renzo Piano firmò il Beaubourg – tutto vetri e pinnacoli, creste e impennate, che da lontano potrebbe persino sembrare una cattedrale moderna. E fra i segni nuovi che stanno per nascere, la parte storica registra l’ampliamento della Rubenshuis, Casa di Rubens, che il pittore abitò per oltre trent’anni e che ne conserva le opere accanto ad altre dei suoi allievi più dotati. Lo studio d’architettura Robbrecht e Daem ha ridisegnato il lato che era costituito dal muro di recinzione del giardino ricavandone un edificio moderno: estetica tecnologica con vetro e brise-soleil verticali, eleganti e ravvicinati. L’intervento si è reso necessario per rendere migliore l’accoglienza degli oltre duecentomila visitatori che ogni anno si recano a rendere omaggio al genio della pittura fiamminga. Verranno aperti un centro multimediale per narrare la storia di Rubens e del luogo in cui ha vissuto e lavorato, un caffè, la sala di lettura pubblica dell'istituto di ricerca, la collezione della biblioteca, il Rubenianum, la più grande al mondo dedicata all’arte fiamminga. L’inaugurazione completa è fissata al 2027, anno del 450° anniversario della nascita del pittore. Si sarà capito come il confronto ravvicinato fra antico e moderno gioca nella nuova Anversa una carta qualificante. Persino il Museo Reale ha accostato talvolta sulla stessa parete nella nuova sistemazione quadri del rinascimento e artisti informali o astratti. E si tratta di vero e proprio “innesto”, sovrapposizione, intersezione.

Ci ha provato anche la Cattedrale di Anversa, uno dei luoghi deputati della città storica, portando nel proprio spazio sacro opere di artisti contemporanei. Voglio qui soffermarmi sul Portacroce di Jan Fabre. L’artista è una delle glorie cittadine di fama internazionale: da vari anni ha preso la strada di contaminare il sacro delle tradizioni iconografiche, in specie quella cristiana (vedi qualche anno fa l’installazione a Venezia di un’opera incentrata sulla rilettura “attuale” della Pietà di Michelangelo con la madre il cui volto era un teschio e il figlio esangue in giacca e calzoni di oggi). Anche in questo caso la scultura di Fabre ci presenta un uomo in calzoni e giacca che tiene in equilibrio sul palmo della mano destra una enorme croce. La scultura, donata da Fabre stesso alla Cattedrale, s’intitola The man who bears the Cross. Se l’uomo che porta la croce è, sembra, un autoritratto dell’artista, l’opera pare mettere in scena l’attrito tra fede e dubbio, grande questione dell’uomo credente (ricordiamoci delle confessioni di Madre Teresa, e non ci sembrerà così nuovo). Tuttavia, una scultura del genere si colloca correttamente in un luogo sacro oppure rappresenta qualcosa di troppo problematico, non funzionale allo spazio liturgico? Certo non potremo riconoscervi un “Cristo portacroce”, anche se possiamo considerare il dubbio come la croce dell’uomo moderno e razionale. Non sarebbe stato più opportuno alloggiare questa scultura nel Museo della Cattedrale, qualora esista? Domande che mi fanno dire quanto la volontà di stabilire un rapporto nuovo con gli artisti spinga talvolta gli uomini di Chiesa a cercare di comprendere oltre il lecito le loro ragioni accogliendone le opere nello spazio sacro anche quando ne costituiscono una provocazione. Ma, ahimè, per quanto possa essere giusto il tentativo, in questo caso mi pare che la presenza di quell’opera dalla superficie dorata nella Cattedrale di Anversa emani l’impuro sentore del piatto nazionale belga: cozze e patatine, di cui andava ghiotto anche Simenon (altra gloria nazionale).

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