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Di Dante ci rimangono tredici Epistole in latino: la quinta, la sesta e la settima riguardano la discesa di Arrigo VII in Italia, mentre la tredicesima (redatta tra il 1312 e il 1320, probabilmente intorno al 1316) è indirizzata a Cangrande della Scala. In passato si è a lungo discusso in merito alla sua autenticità, che però oggi appare provata.
Cangrande della Scala era il signore di Verona, presso la cui corte Dante soggiorna - in una fase del suo peregrinare dopo l’esilio da Firenze - dal 1313 al 1318-1320. Audace, tenace, pronto alla decisione e all’azione, ospitale, protettore di letterati e di artisti, è la figura più brillante fra i capi ghibellini del suo tempo. Per bocca del suo trisavolo Cacciaguida, nel XVII canto del Paradiso Dante gli riserva un elogio che ne ha immortalato la fama: le sue gesta saranno così illustri (quando Cacciaguida ne parla, nel 1300, Cangrande ha solo 9 anni) che i suoi nemici non potranno tacerle. Dante - prosegue Cacciaguida - riceverà il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente cambiato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa.
L’Epistola a Cangrande - della quale l’editrice Antenore manda in libreria una nuova edizione ottimamente commentata da Luca Azzetta (pagine 480, euro 15,00) - è un testo di capitale importanza per comprendere il senso della Divina Commedia. Di quest’ultima, come è noto, nel corso del tempo sono state date le più diverse interpretazioni. Oggi la maggior parte degli studiosi concordano sul fatto che il genere di sovrasenso (cioè di significato secondo, dopo il primo, quello letterale) proprio al poema dantesco è quello figurale. Si tratta di un aspetto studiato da vari critici, e in particolare dal filologo tedesco Erich Auerbach, secondo il quale «“figura” è qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica». L’interpretazione figurale di Auerbach non fa che sviluppare quanto lo stesso Dante aveva spiegato proprio nell’epistola a Cangrande. In essa il poeta gli annuncia l’intenzione di dedicargli il Paradiso, di cui ha da poco iniziato la stesura, e offre alcune chiavi di lettura della propria opera.
Innanzitutto Dante promuove un’interpretazione della Commedia che vada al di là di quella puramente letterale: «Il senso di quest’opera non è univoco, anzi può essere definito polisemo, cioè di più sensi; infatti il primo significato è quello che si ricava attraverso la lettera, un altro è quello che si ricava per le cose significate attraverso la lettera. E il primo si definisce letterale, il secondo invece allegorico, o morale, o anagogico». In riferimento al proprio poema scrive: «Dunque il soggetto di tutta l’opera, intesa soltanto secondo la lettera, è lo stato delle anime dopo la morte considerato in senso generale (...). Qualora invece si intenda l’opera allegoricamente, il soggetto è l’uomo in quanto, meritando o demeritando attraverso la libertà dell’arbitrio, è sottoposto alla giustizia del premio e della punizione».
Nel Convivio Dante aveva distinto tra l’allegoria dei poeti, in cui il livello letterale del discorso è finto, e l’allegoria dei teologi, nella quale il livello letterale è vero. Ora, scrivendo a Cangrande, afferma che il tipo di allegoria da applicare alla lettura della sua opera è l’allegoria dei teologi. Sostiene cioè che, nel caso del suo poema, anche il livello letterale è veritiero. Dante ci dice così che il viaggio nell’oltretomba che egli racconta nella Commedia è stato un viaggio reale, un’esperienza accaduta veramente. Un altro punto importante della lettera a Cangrande è quello inerente alla finalità dell’opera. Dante dichiara di averla scritta con un intento, per così dire, missionario: riscattare il genere umano dalla sua condizione di degenerazione morale, per guidarlo verso la salvezza eterna.
La lettera a Cangrande offre importanti informazioni anche sul titolo del capolavoro dantesco. Commedia sembra alludere anche al contenuto: nel suo inizio, l’Inferno, orribile e disgustoso, e nella sua conclusione, il Paradiso, piacevole e pacificato. Scrive Dante nella stessa epistola, a proposito del genere classico (greco e latino) della commedia (in contrapposizione a quello della tragedia): «La commedia (...) inizia dall’asprezza di una situazione, ma la sua materia si conclude felicemente». Infatti – prosegue l’autore a proposito del proprio poema – «se guardiamo attentamente alla materia, da principio è orribile e fetida, perché è l’inferno, alla fine è prospera, desiderabile e gradita, perché è il paradiso».
Probabilmente nel titolo Commediaè presente anche un riferimento alla scelta del volgare, e cioè di una lingua familiare, in grado perciò di essere compresa (a differenza del latino) anche da coloro che non hanno alle spalle studi approfonditi. Ancora dall’epistola a Cangrande: «Se guardiamo (...) al modo di esprimersi, il modo è dimesso e umile, perché è il parlare volgare, nel quale comunicano anche le donnette». Senza alcuna offesa: il femminismo era ancora di là da venire.